Il presente lavoro è pubblicato anche in Anamorphosis, a cura di Wilma Scategni e Stefano Cavalitto, n. 12, 2014, Ananke, Torino, pp. 33-46. In questa versione per Scienza e Psicoanalisi ne sono stati amplificati alcuni dettagli (N.d.A)

Sommario

Presenterò qualche film, riletto attraverso un modo, ormai a me naturale, di considerare l’appagamento dato da una creatività che ha elaborato e ricombinato tracce di benessere, latenti e potenziali, con tracce conflittuali e traumatiche per un miglioramento della situazione tutta. Come nei precedenti lavori per Anamorphosis (2009-2014), per Scienza e Psicoanalisi (cfr. tag https://www.psicoanalisi.it/tag/benessere-psicobiologico) per il Bollettino IIM e altrove, discuterò su come l’elaborazione delle tracce, legate all’espressione distruttiva della “pulsione di morte-di vita” (nella lettura micropsicoanalitica), possa compiersi, in generale, anche attraverso il ripristino di aspetti resilienti, vitali e creativi che, “elaborati e ricombinati nel preconscio” (Armando, 2007, pp. 48-53) con gli elementi distruttivi o con i relativi residui (se ci si riferisce al lavoro psicoanalitico), rendono possibile un nuovo adattamento, disattivando la stasi data dall’automatismo inconscio delle riattualizzazioni conflittuali-traumatiche.

Verso aspetti inconsci non conflittuali…

I film di cui dirò sono stati tutti, per me, l’incontro con qualcosa che va nel senso dello studio di cui sopra (Cfr. Gariglio, Lysek, Armando 2007, L’Age d’Homme, 2008)  1 che ha indicato la creatività come un continuum psicobiologico tra potenzialità, trauma, vuoto, nuovi tentativi. Una narrazione quindi, che può partire da desideri molto lontani; ne avevo già fornito un’esemplificazione, allestendo, alla fine degli anni 90, presso la casa editrice Tirrenia Stampatori, una Collana di narrativa e creatività postanalitica (per l’appunto, chiamata I Nuovi Tentativi) le cui 4 pubblicazioni: B. Jaccard, Alfredo (1999 https://www.psicoanalisi.it/libri/3771 ), D. Gariglio, Itinerando. Odissea di una scrittura (2000, https://www.psicoanalisi.it/libri/4558 ), AA.VV., Echi…Gemme (2001,  https://www.psicoanalisi.it/libri/4590), E. Demarchi, Linguaggi. Rapporti nati dalla ricombinazione di voci antiche (2002, https://www.psicoanalisi.it/libri/4922 ), rimangono, per tutti quelli che vi hanno lavorato, Autori e commentatori dei lavori, testimonianza di sinergie operose ed appaganti.

Le storie dei 4 libri e dei film (oggetto di questo lavoro), alcune tratte da storie vere nell’adattamento cinematografico, rimandano tutte alla resilienza e alla riconversione energetica che ne deriva: i protagonisti delle narrazioni cinematografiche, adattandosi a situazioni più o meno distruttive: sofferenza, perdita, lutto… (nell’elaborazione del linguaggio artistico), si sono alla fine reinventati, trasformando un vuoto sentito inizialmente traumatico come un vuoto benefico, capace di rendere operativa certa potenzialità creativa che si intravvede, a ben guardare, quando la tela dell’esperienza si rarefa.

Invenzioni creative dunque e storie vere si intrecciano, rendendo protagonista la capacità di sopravvivere e reinventarsi. A proposito della resilienza  2 (Boris Cyrulnik, docet…) dichiarandomene affascinata in un lavoro per Anamorphosis (Gariglio, 2009, pp. 24-25), in quanto tale nozione “nasce già come punto di raccordo tra diversi modi di pensare e modellistiche, lasciandosi alle spalle la parcellizzazione della persona e chi la condivide”, l’avevo già legata alla nozione di informazione di benessere, traccia latente nell’inconscio e riattivabile nel processo di elaborazione ricombinativa in una dinamica vitale e creativa che considera l’essere umano nella sua completezza trasformativa.

I segreti

E veniamo al primo film, che narra l’adattamento a tre situazioni traumatiche e lo scongelamento postumo di segreti centenari, per un riconoscimento dei vissuti d’ingiustizia racchiusivi, verso una speranza di disattivazione più globale. Nella nota 9, una puntualizzazione psicoanalitica di Nicola Peluffo (2003) sul “segreto”.

  1. Les esclaves oubliés de l’Ile Tromelin (Gli schiavi dimenticati dell’isola Tromelin) di Emmanuel Roblin e Thierry Ragobert. Produzione MC4, Francia, 2010. Il 31 luglio 1761 una nave della Compagnia delle Indie, l’Utile, con un carico di schiavi, destinati ad essere venduti, si incaglia sull’Ile de Sable, oggi Tromelin. Sopravvivono 88 schiavi malgasci e un centinaio di marinai francesi, che dopo due mesi raggiungono il Madagascar con la Provvidenza, un’imbarcazione imbastita dai sopravvissuti con i resti della nave naufragata. Agli schiavi rimasti viene promesso un rapido recupero. Nell’attesa, alcune coppie si sperdono in mare su imbarcazioni di fortuna; gli ultimi tre uomini, 4 mesi prima del salvataggio. Quindici anni dopo verranno raccolti con la nave Dauphine, inviata dal cavaliere di Tromelin, sette donne e un bambino di otto mesi, ribattezzato Mosè. Al ritorno, tutti vivranno come persone libere.

In uno degli incontri annuali con il “cinema archeologico” 3 , mi imbatto, con una certa emozione, nel film Les esclaves oubliés de l’Ile Tromelin. L’isola, di circa 1 km², è un atollo battuto dai venti e dalle correnti, sperduto nel cuore dell’Oceano Indiano, isolato dal mondo e dalle rotte marittime e, dal 1954, stazione francese metereologica di osservazione della formazione dei frequenti cicloni. La storia di questo triplo trauma di schiavismo, naufragio e abbandono, ma anche di tentativo di sopravvivere, con la messa in atto di capacità adattive, è rimasta seppellita negli archivi per 250 anni. Ed ecco che questo film-documentario dà voce a una missione archeologica 4 , guidata da Max Guérout  5 , un capitano di vascello che ha navigato su tutti i mari del globo e con cui ho avuto l’onore e il piacere di un interessante periodo di collaborazione con scambio di notizie e materiali su questa storia “antropologica e umanitaria” (cfr. Forum del GRAN).  6

Tale storia traumatica e di adattamento con la ri-creazione, in parte, di un tipo di vita conosciuto e, insieme, la creazione di qualcosa di completamente nuovo, oramai comprovata anche dai ritrovamenti archeologici, è stata dapprima ricostruita attraverso una ricerca storica, in archivi della Marina, sulla nave, sul naufragio, sull’abbandono con morti, malattie e adattamenti, sul ritrovamento e il ritorno dopo 15 anni di isolamento… I dati raccontano anche la capacità di riorganizzarsi, per riprendere a vivere come persone libere, al di là della solitudine forzata di Tromelin.

Di questa vicenda ho parlato una prima volta, presentando sequenze del film, in un intervento (giugno, 2013) Gajap a Superga, come prima “occasione di riflessione sul fenomeno dell’“inesprimibile genealogico”, secondo la lettura (1991) di Nicola Peluffo (maestro di tanti, con cui mi sono formata in psicoanalisi individuale con il metodo micropsicoanalitico e con cui ho condiviso una caratteriale spinta all’integrazione, caratterialità peraltro già espressa nella parte finale, junghiana, di una precedente formazione in psicodramma analitico freudiano: lemoniano/lacaniano…) e una seconda volta, in Sicilia, in occasione dell’annuale (novembre 2013) Convegno SIM/IIM: La solitudine (XV Ed. di Formazione Micropsicoanalitica, in “Interazioni e solitudine”, VII Edizione della Settimana Internazionale della Ricerca – Univ. degli Studi di Messina – che raggruppa Filosofia, Neuroscienze e Psicoanalisi di varie matrici: Freudiana, Bioniana, Junghiana …).  7 La mia relazione: “Solitudine, elaborazione dell’inesprimibile genealogico e creatività: una conferma in Max Guérout e gli schiavi sopravvissuti a Tromelin”, condividendo un parlare di alcuni conferenzieri in termini di solitudine come “elogio, situazione costruttiva, mediazione, interazione e reciprocità…”, ha aggiunto il nostro studio sulla creatività e, in particolare, sul recupero di certe tracce di benessere latenti (resilienza che ha permesso di sopravvivere), come riferimenti organizzativi e sociali della cultura d’origine di quelle persone trafugate come schiave. 8 

“Siamo animali sociali (Aristotele, Hanna Arendt), afferma anche Sandro Panizza (2012, Atti, 2013, p. 65): non solo perché abbiamo una predisposizione psichica a vivere in mezzo agli altri, ma, prima ancora, perché la stessa socialità dà forma al nostro cervello: la nostra mente, lo sviluppo sottile del nostro cervello è scolpito dalla socialità.”. E’ dunque questo a venire prima di tutto, anche della distruttività? Oggi, confesso di ipotizzarlo, al di là di chi assegna invece il primato alla pulsione di morte e all’aggressività, rischiandone talvolta il fagocitamento…. E forse, allora, quel piccolissimo gruppo, adattatosi con tale tenacia, protagonista inconsapevole di un segreto 9  durato secoli, è sopravvissuto perché capace di condivisione…? Mi piace pensarlo e generalizzando dire, con le parole di Vincenzo Ampolo (2012, p. 140), trovate alla fine di un suo libro gentilmente omaggiatomi, che c’è una “storia segreta della nostra vita, che diverge, quando non vi si contrappone, dalla storia ufficiale, legalizzata e socialmente riconosciuta. Questa storia segreta è sempre molto più vera, inquietante e sovversiva di quella legata alla professione, ai ruoli e alle apparenze di un supposto ordine vitale.”. Con ciò, il segreto esce dalla psicopatologia e diventa la ricerca di un nucleo identitario che, se messo in luce, può dare maggiore coerenza a certo nostro operare. Rimandando agli Atti in corso (Bollettino IIM a cura di Luigi Baldari) e al video amatoriale realizzato dal collega Alessandro Mura (http://youtu.be/w6r3M_hjd94), anticipo un breve sunto dell’intervento che riprende e prosegue quello portato a Superga.

A proposito del movimento energetico-pulsionale-relazionale, nell’“inesprimibile genealogico”…

Nella relazione, riferendomi alla situazione solitudine (su cui ho tanto riflettuto nei materiali analitici, tra i primi, vedi Gariglio 2002 e 2007, in Bollettino IIM, n. 39 a cura di Luigi Baldari, https://www.psicoanalisi.it/libri/3734 ), ho focalizzato il rapporto tra solitudine dolorosa e inibizione del movimento energetico-pulsionale-relazionale che si esprime come stasi da disattivare.

Per l’illustrazione della rimessa in moto del processo trasformativo, ho esplorato lo scongelamento di un “inesprimibile genealogico” (Peluffo, 1991)10, in merito all’episodio traumatico collettivo di solitudine forzata a Tromelin, sepolto negli archivi ma certamente presente nello psichismo dei discendenti. Oggi, ad esempio, c’è un intero paese abitato da discendenti provenuti da tale esperienza, tramandata in qualche cognome delle navi protagoniste di Tromelin; qualcuno sarebbe interessato a parlarne, altri no, per un senso di ritrosia…

Va da sé che, per uno psicoanalista immerso nelle storie che si ripetono, è sempre interessante avere la possibilità di incontrare ri-vissuti di discendenti, da intendersi come vissuti degli antenati, mantenutisi nel corso delle generazioni, negli aspetti traumatici e in quelli adattivi…

Con una certa emozione, come dicevo, l’ho potuto verificare, nel momento finale del film-documentario della spedizione archeologica, nelle parole di un operatore, immerso in una distensione finalmente raggiunta da cui era germogliata tutta la mia ricerca successiva: E’ importante per me questa operazione, sta, serenamente elaborando tale rappresentante della cultura malgascia – come si vede nel film – perché attraverso questa iniziativa scientifica si è anche ritrovata una parte della mia identità, perché ho degli antenati malgasci. Il mio avo era malgascio; ha attraversato l’Oceano Indiano per essere trasportato alla Réunion come schiavo e dunque si sono incontrati coloro che come lui sono stati prelevati come schiavi e che in seguito si sono trovati su quest’isola sperduta nell’Oceano Indiano e hanno dovuto vivere quest’esperienza di libertà. Ma una libertà terribile, difficile, perché erano su quest’isola lasciati a se stessi, abbandonati a se stessi, ciononostante hanno saputo ricreare un’organizzazione. Per me, ciò ha il significato di ritrovare la fierezza dei miei antenati che hanno vissuto, che sono morti. E toccando questa sabbia si è toccata un po’ della mia storia.”. Straordinaria evidenza della disattivazione, o quanto meno riconoscimento di una traccia antica e dolorosa, fino a quel momento ancora fonte di amarezza.

In un parallelismo (già in Freud, 1937), situazione analitica-situazione archeologica cui ha fatto anche riferimento la mia relazione, questa distensione dell’operatore malgascio può essere simile a quella che si incontra in un lavoro analitico, alla disattivazione di qualche traccia traumatica o conflittuale. Così, l’inserimento di operatori e archeologi malgasci, in questa missione finanziata dall’Unesco, nel programma “la rotta dello schiavismo” proprio nell’anno (2006) in cui se ne commemora l’abolizione, con 4 spedizioni scientifiche (2006, 2008, 2010 e 2013), ha anche permesso di riprendere empaticamente contatto con qualche aspetto sommerso degli Antenati di cui è stata onorata la memoria e perpetuato il ricordo celebrando per loro delle “seconde esequie”.

Dall’ inesprimibile genealogico traumatico, ad uno adattivo…

In sintesi, il mio intervento ha tentato di dimostrare come si possa parlare, in termini di trasformazione, del passaggio da un inesprimibile genealogico traumatico, secondo l’accezione classica, ad uno adattivo, con il ripristino di esperienze di benessere, preesistenti al trauma della schiavitù e dell’abbandono. Con la missione del 2013, co-diretta da Max Guérout (GRAN) e Thomas Romon (INRAP), è stato inequivocabilmente dimostrato come, persone una volta libere nella propria terra, violentemente prelevate per essere vendute come schiave, nascoste nella stiva dell’Utile che fa naufragio decimandole, costrette ad arrangiarsi in una situazione del tutto ostile e sconosciuta, dimenticate da chi aveva loro promesso di tornare a prenderle, in parte siano invece sopravvissute. E, in quel territorio ostile e di isolamento forzato, hanno lasciato una vibrazione che ancora racconta la capacità di adattamento, riscongelando abitudini prolifiche della loro cultura così da ripristinare un sociale vissuto in libertà, come viene accertato nella ricostruzione archeologica.

Tracce psicobiologiche, dunque, che hanno inconsciamente chiamato a riprendere contatto con avvenimenti che fungono da segreti! Ed ecco allora spuntare dalla sabbia, il ritrovamento di spilloni per raccogliere i lunghi capelli delle donne, secondo l’usanza del paese d’origine, testimonianza che commuove l’archeologa malgascia inserita nella missione, perché le persone a Tromelin, rasate in quanto schiave, “erano tornate libere, facendosi ricrescere i capelli”. E ancora, straordinari raggruppamenti abitativi, sorta di fortezze, atte a far fronte alla ciclicità del ciclone e alla furia dei venti, edifici che dimostrano anche, sempre parlando di adattamento e creatività, “la capacità di andare oltre ai tabù con la scelta difficile di costruire abitazioni in pietra raggruppate, per viverci, simili alle sepolture, allora in pratica nel Madagascar”. Per non parlare delle “nuova capacità di vivere in un ambiente marino, sconosciuto nella situazione originaria, sopravvivendo quindi con il cibo presente in situazione, tartarughe, granchi, mitili, uccelli, in una cucina collettiva…” e della conservazione per 15 anni del fuoco e dell’acqua in recipienti appositi, anche restaurati, riutilizzando oggetti marini presi dalla nave incagliata: chiodi, ganci, ami, treppiedi rudimentali, pentole…, fino al  ritrovamento di braccialetti ornamentali, nell’ultima missione.

Un tempo-spazio quindi che testimonia una “comunità solidale con grande capacità di adattamento pratico e psicologico” (Guérout e Romon, ottobre 2013: “Compte rendu préliminaire de la quatrième mission archéologique de fouille archéologique sur l’île de Tromelin” e trad. dal documentario Inrap, 2010): una verifica, da ultimo, della capacità adattiva raggiunta con l’integrazione di tracce di benessere preesistenti alla situazione pretraumatica di provenienza, elaborate e ricombinate con le ferite traumatiche, a tutto beneficio di un’affettività rimossa.

  1. Ogni cosa è illuminata (titolo originale:Everything Is Illuminated). Film statunitense uscito nel 2005. Si tratta della trasposizione cinematografica dell’omonimo libro autobiografico in cui Jonathan Safran Foer racconta il suo viaggio (sia fisico che spirituale) sulle orme del nonno, costretto ad emigrare, dalla natia Ucraina, negli Stati Uniti.

Una ricerca genealogica che, alla fine, completandosi il tentativo interrotto che l’aveva messa in moto, distende e libera energia. Nel film, belle musiche e una regia sapientissima che procede in amplificazione continua di dettagli; un reincontro, preparatosi all’insaputa “apparente” delle due parti (America ed Ucraina): ebrei sopravvissuti ad un eccidio nazista e la generazione che vi è succeduta. In realtà, tessutosi su quel “comune desiderio inconscio”, teorizzato da Nicola Peluffo in “Le manifestazioni del Bimbo nella dinamica transfert-controtransfert” (2006, https://www.psicoanalisi.it/editoriale/2660 ) per ri-esplicitare nozioni attualmente molto in uso, come “sincronicità” (Jung 1976), “empatia” (e “neuroni specchio” in Rizzolati, Iacoboni), mutualità (Stern, nelle sue osservazioni di psicoanalisi infantile, 1985 tr. it. 1987, sulla “sincronia tra madre e lattante, condivisione dello stesso codice di segnali, reciprocità e intenzionalità”, in Presentazione di Massimo Ammaniti, etc.). Tali incontri vis à vis ma, inconsciamente preparatisi da molto lontano, porta ai ricercanti di questo straordinario film un ripristino energetico, espressosi subito nella rinnovata capacità di tornare, senza più pendenze, ciascuno nella propria vita, lasciandosi alle spalle persino la nostalgia, caratteristica del trauma che inchioda. Traggo dal film: “ I ricordi servono per non dimenticare, ciò che viene seppellito non è perché noi lo troviamo ma perché lui venga trovato.”. Aggiungerei: “(…) perchè tale ricordo venga trovato” e, alfine, ricollocato in noi, elaborato e ricombinato con altre tracce.

A proposito del passaggio generazionale di una traccia traumatica, ne ho accennato in due lavori.

Primo inserto. (Da: Gariglio, “Incontri analitici e nascita di nuovi tentativi”, 2013, https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/3169 ): “(…) Una situazione che pulsa con la distruttività di un cancro che abbia decimato, filogeneticamente, più persone di una stessa famiglia, o dell’Olocausto, in un altro esempio estremo, in cui un giovane attuale, erede di qualche familiare sopravvissuto all’annientamento dei campi di sterminio, si ritrovi a sentire ancora, in sé, qualche traccia traumatica di questa eredità, attraverso il ripetersi di questo intenso vissuto di dolore: Ciò che più mi fa male è la loro indifferenza, in riferimento a certe persone leggere o aggressive, nella situazione presente. Un rivissuto attuale su trama antica, che si riattiva in ogni situazione sentita ingiusta. Di qui, un benessere come sgravio, in primo luogo. Una distensione nuova e appagante da cui potrà anche generarsi, se l’elaborazione continua, altro ancora più piacevole se il filo associativo si instraderà sul nuovo imprinting. (…)”.

Secondo inserto. (Dal paragrafo: “Il controtransfert nel campo ossessivo di destino e fallimento” in Gariglio, “A proposito del mantenimento di un benessere…”, 2013, https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/3143): “(…)Finalmente possiamo contare su un accordo con certi dati storici della micropsicoanalisi che ha sempre lavorato sul dato filogenetico traumatico attraverso le evidenze tratte dalla ricerca genealogica del tipo di quelle portate alla luce dalla psicoterapeuta israeliana, Dina Wardi che, nel suo Le candele della memoria (1993), parla dei figli dei reduci del campo di concentramento, evidenziando aspetti che si ripetono in generazioni che, all’epoca dell’Olocausto, ancora non esistevano. Sono tentativi di ricostruire identità spezzate o perdute. Ne ho da poco fornito un accenno in “Incontri analitici e nascita di nuovi tentativi” (cit.): una rievocazione generazionale di massima concentrazione di malvagità, come sopruso subito, si riattiva in ogni situazione attuale sentita ingiusta. Un rivissuto di seduta dà finalmente parola a non detti antichi, passati in sogni e incubi infantili ricorrenti, elaborati come presenze inquietanti che si accomodano in un sogno di distensione riportato in seduta; successivamente, occuperanno uno spazio creativo: una narrazione che, in più, contiene – ora, qui – anche una certa ironia. Con l’elaborazione insieme del sogno e della narrazione, si raggiunge consapevolezza e benessere, come sempre accade, in analisi, quando si esternano affetti congelati. Da tale distensione si genera un transfert imperniato sull’essersi sentiti, hic et nunc, ascoltati e capiti. (…) può ora cominciare a mettersi in moto il processo di “elaborazione ricombinativa” con cui verrà disattivata una distruttività che vibra da lontano. Oggi so che tale situazione è imprescindibile per andare oltre la già salutare relativizzazione. (…)”.

E ancora, sulla natura filogenetica della traccia traumatica, rimando al lavoro della collega Gioia Marzi, “Il pianto: ipotesi filogenetica” (2003, https://www.psicoanalisi.it/psichiatria/4319 ): “Ritengo che i traumi endemici possano avere una portata nefasta per le generazioni successive quasi più che per quelle direttamente interessate….”. E, per riflettere ulteriormente sulla questione dei “testimoni indiretti”, collegati empaticamente a familiari e parenti, rimando all’ultimo libro del neuroscienziato e testimone diretto dello sterminio, Davide Schiffer, “Memoria e oblio” che scrive, a proposito della “memoria senza più i superstiti”: “voglio seguirne il destino nella mente degli uomini delle generazioni che si sono succedute e che verranno” (dalla quarta di copertina).

  1. Philomena, 2013. Diretto da Stephen Frears, frutto di una co-produzione traFranciaRegno Unito Stati Uniti. Il film è basato sul romanzo di Martin Sixsmith intitolato The Lost Child of Philomena Lee, pubblicato in Italia da Edizioni Piemme con il titolo Philomena, in concomitanza con la distribuzione del film. È stato presentato in anteprima il 31 agosto 2013 all’interno del concorso ufficiale della 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il Premio Osella per la migliore sceneggiatura e altri premi. Al Toronto International Film Festival ha ottenuto il secondo posto tra i film scelti dal pubblico. 

Il bello della storia ci mostra la distensione di una donna irlandese che, per cinquant’anni, cerca suo figlio, partorito in un convento e venduto a sua insaputa a una famiglia americana, secondo l’usanza di quelle suore. Quando l’anziana donna, alla fine della ricostruzione della verità, viene a conoscenza che anche lui, suo figlio, l’aveva comunque… sempre cercata, si scarica di un peso enorme. Questo la ripaga del dolore di scoprire che, purtroppo, il figlio era morto da poco. Di qui, energia nuova per gli anni futuri. Il dolore insopportabile, placatosi con la scoperta di essere stata anch’essa cercata, verteva appunto sulla domanda: anche lui lo avrà fatto? Anche lui, quindi, avrà continuato ad amarmi, dopo la separazione traumatica?

  •  4.     Anita B. (2014). Un lungometraggio di Roberto Faenza su un inedito dopo Auschwitz, liberamente ispirato a un racconto di Edith Bruck “Quanta stella c’è nel cielo” (Garzanti): una ragazzina di origini ungheresi, sopravvissuta ad Auschwitz, cerca di conciliare il desiderio di conservarne la memoria, diversamente dalla zia che l’accoglie in casa (unica parente rimasta viva) e da altri personaggi della storia, con la voglia di riprendere, comunque, a vivere. Ambientazione: Budapest/Trieste/Praga/Bolzano e dintorni; Paese:Italia/Ungheria/USA.

A proposito del film, il regista Roberto Faenza dice: “(…) Questa storia guarda ai suoi protagonisti con pudore e discrezione…”. Al di là del film (di cui ho gustato tantissimo la ricostruzione d’ambiente), che ha reso protagonista “le risorse di vita” nei sopravvissuti (da una storia vera), il problema è, ancora una volta, il passaggio dell’informazione traumatica da una generazione all’altra (nel sogno ad esempio, nelle coazioni a ripetere… in “inesprimibili genealogici”), ciò che rende delicato il lavoro psicoanalitico di fronte ad un’elaborazione spesso congelata per rimozione o negazione dei fatti, da parte degli stessi familiari…

Mi è piaciuto, in questo film che celebra il tentativo di ritornare a vivere, quel farlo, nella protagonista Anita, senza dimenticare, cancellando il passato come difesa inconscia messa in opera da tanti (ammesso che la cancellazione si possa compiere definitivamente e vedi il film: “Ogni cosa è illuminata” dove l’unico sopravvissuto all’eccidio efferato, nel tentativo di negazione/rimozione del fatto traumatico, aveva, senza rendersi conto del senso di ciò che stava facendo, guarda caso, messo in piedi proprio una piccola attività commerciale per aiutare ebrei sopravvissuti o scampati a ritrovare aspetti del loro passato… Un desiderio inconscio di sentirsi ancora parte della sua comunità annientata… resosi conscio con il ritrovamento della memoria attraverso la rivisitazione dei posti dell’eccidio. Così che, paradossalmente, dopo la ricomposizione del puzzle, si suicida, realizzando, a mio avviso, quel desiderio ormai scongelato, di condivisione di una stessa sorte: meglio morto insieme ai compagni che unico sopravvissuto). Invece, Anita, anch’essa sopravvissuta, vuole vivere, sentendosi ‘viva’ tra i vivi e non ‘morta mancata’ tra i morti. E vuole farlo “ricordando”, senza cadere nel tabù del raccontare il lager, come tanti hanno fatto, al ritorno alla normalità della vita. Faenza ci ricorda: «Dopo la Shoah ricordare è vivere.”. Ed è allora, qui, che Anita con il suo bimbo in gestazione, un puer simbolo di un rinnovamento ancora possibile, incontra personaggi vitali, creativi e di anima con cui, alla fine, si accompagna, separandosi da chi non è riuscito ad uscire dal proprio congelamento traumatico che rigenera altre distruttività in una ripetizione di morte, coatta e diabolica: una moviola sado-masochistica affamata di complici…

Un film che, in sintesi, celebra il raggiungimento della consapevolezza che, nell’hic et nunc della quotidianità, – come già in quello della relazione analitico/psicoterapeutica (vedi anche in Stern, 2004, tr. it. 2005: “ciò che avviene quando due menti si incontrano in un’esperienza condivisa”) – quell’essere usciti dal congelamento proprio e altrui, dato da traumi e conflitti, è condizione sine qua non, esperienza dunque vitale e fonte di nuove creazioni, per potersi alfine trovare, naturalmente, a camminare assieme a persone con cui si possono condividere empaticamente ‘anche’ le efferatezze subite, mentre però si costruiscono già, in alleanza e sinergia, nuovi tentativi.

  1. Termino con I segreti di Osage County (2014). Il film, basato sullapièce teatrale di Tracy Letts August: Osage County, vincitrice del Premio Pulitzer, diretto da John Wells, è prodotto, insieme ad altri, da George Clooney e distribuito dalla The Weinstein Company. Le riprese sono del 2012 a Bartlesville e Pawhuska, in Oklahoma e a Los Angeles. Il film, distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi il 27 dicembre 2013 e approdato alle sale italiane,   a partire dal 30 gennaio 2014, ha ricevuto Molti Premi e Riconoscimenti. (Da Wikipedia).

Meryl Streep interpreta magistralmente Violet Weston, una matura donna malata che vive nella contea con il marito Beverly Weston la cui scomparsa misteriosa (un suicidio, per la verità), dà il pretesto ai figli, chiamati a rientrare e a parenti vicini, di mettere finalmente a disposizione ‘di tutti’ alcuni segreti di famiglia, permettendo lo sciogliersi di una fissazione maligna generazionale e mettendo fine a quei rapporti vittima-carnefice che rendono impossibile separazioni, autonomie e individuazioni. Dopo il trauma dello svelamento del segreto, il vuoto che ne consegue e la distensione raggiunta, si profilano nuove spinte identitarie.

Verso una naturalizzazione dell’elaborazione ricombinativa nell’arte, nell’analisi, nella vita…

Come il sogno, anche l’opera d’arte scarica tensione, nell’appagante gioco di fantasia con l’illimitata libertà creativa del romanzo, della poesia, della pittura/scultura… ma anche della “musica, danza, teatro e cinema, forme dinamiche vitali”, per Daniel Stern (2010, tr. it. 2011, cap. v, pp. 65-84). E la distensione avviene nella realizzazione di desideri legati alla vita, come prima lo erano alla stasi, con la ripetizione coatta di elementi perversi che, se elaborati, esauriscono la spinta mortifera a riproporsi. In particolare, tali processi spiegati dalla psicoanalisi, vengono consapevolizzati nel lavoro analitico che, potremmo allora dire, protegge anche dalle spinte distruttive di un’aggressività diabolica, favorendo la disattivazione di conflitti e la relativizzazione di esperienze traumatiche. Tenendo presente che, nel percorso tra il principio di piacere e quello di realtà, l’elaborazione di certi desideri scongelati, che chiedono soddisfazione, incontra frustrazione castrazione e adattamenti che, se sentiti troppo gravosi, possono indurre la persona a fermarsi soltanto sulla consapevolezza del desiderio, accomodandosi in una situazione difensiva di nostalgia… E parlo, qui, delle analisi interrotte e congelate, prima del mettersi in moto del movimento pulsionale, in una situazione, “ancora né carne né pesce”, come la Lia dei Malavoglia, quel “difficile passaggio, dicendolo psicoanaliticamente con Antonino Ferro (2010, p.1), da un regime di tenerezze e affetti a un regime passionale, l’unico capace di generare qualcosa di nuovo e di vivo”. Sicuramente, un lavoro psicoanalitico terminato con l’uscita dalla stasi pulsionale-creativa (nella mia esperienza, meglio se micropsicoanalitico o quanto meno intensivo, secondo l’appropriato conio che condivido, di Quirino Zangrilli https://www.psicoanalisi.it/pillole/2083 ), naturalizza, anche nella vita di realtà, il processo di elaborazione ricombinativa in cui le istanze superegoiche e idealistiche, resesi più plastiche, consentiranno alle lacrime di scorrere insieme a quote di gioiosità (tracce di benessere resilienti), verso la tessitura di nuovi tentativi, verso la ricerca di un nuovo senso, dopo ogni lutto, perdita, separazione e vuoto che ne consegue, sapendo che nella complessità le variabili in gioco sono infinite.

Sintetizzando e generalizzando il mio pensiero, la vita, con il suo potenziale di creatività che si esprime nelle attività del sonno-sogno, aggressività e sessualità, potrebbe (e qui è d’uopo il condizionale) ben incontrarsi e confrontarsi con una spiritualità capace di reintegrare nella cultura il valore della natura (già appagante protagonista in certa arte preistorica https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/3436), in una rappresentazione affettiva di psiche (anima) e corpo, come un unicum cui si richiede, per il benessere della persona e della situazione tutta, di esprimersi in una risonanza addestratasi a calibrare le manifestazioni del corpo e della psiche. Un incontro, dicevo, tra le forze creative pulsionali relazionali e spirituali dove il termine “spiritualità”, per non ingenerare equivoci, va inteso come integrazione di natura, cultura e psicosomatica, al di là di ogni monoteismo religioso e derive integraliste, con politiche di sopraffazione e invasione: tutte situazioni legate al binomio possesso-distruzione; situazioni che richiederebbero a cittadini e governanti la creazione comune di tentativi razionali di soluzione, capaci di riequilibrare bisogni violati e ridare vitalità a desideri calpestati o negati. E’ appena successo in Francia e altrove dove circa quattro milioni di persone, sono diventati, l’11 gennaio, una fiumana unanime contro il terrorismo, per ritrovare un nuovo senso collettivo, accingendosi, in questo modo, ad elaborare e ricombinare i traumi subiti da certa distruttività che, se non fosse per l’orrore e la sofferenza che se ne crea, potrebbe anche essere letta, in generale, come una comune resistenza al cambiamento, dato dall’evoluzione che si esprime.

Penso allora che la ricerca di un nuovo senso comune, naturale risposta di vita alle devastazioni per mano umana, potrebbe giocarsi nel senso della tolleranza e del rispetto reciproco onnicomprensivo di dei e religioni, con sentimenti di cooperazione positiva atta a sostituire la verticalità dell’autoritarismo, che mantiene la scissione negando o proiettando i conflitti, con l’autorevolezza del dialogo interdisciplinare, che tenta invece di unire le risorse mentre sa anche porgere attenzione e cura alla sofferenza, causata da esperienze traumatiche incistate nell’evoluzione umana. Impresa ardua e complicata per la sovradeterminazione dei tentativi, nei diversi gradi di evoluzione delle specifiche storie culturali e religiose, ciascuna delle quali tende a considerare migliore il proprio livello di civiltà, come ci raccontano i corsi e i ricorsi della storia. Per meglio rappresentarci la complessità di tale pluralità di cause e motivazioni, basti pensare alla sovradeterminazione, fonte di conflitto, nell’essere umano, dicendocelo con Nicola Peluffo (2003 https://www.psicoanalisi.it/editoriale/4955): “ci sono stadi più evoluti di comportamenti esistenziali vicini ad altri più infantili e sempre più arcaici che entreranno in profondo conflitto coi primi. In termini immaginifici, possiamo dire che all’interno di ogni adulto esiste un bambino, che all’interno di ogni bambino esiste un feto, che all’interno di ogni feto esiste un embrione e così via a ritroso fino alle origini della materia biologica….”.

Ciò detto, quando, qualche volta, viene raggiunta la capacità di soluzioni difensive plastiche, capaci di adattarsi ai cambiamenti, il singolo e la collettività sono immessi in un circuito di trasformazione che va nel senso di un umanesimo e una spiritualità a servizio della scienza, come già auspicava, l’ingiustamente emarginato Lucrezio, nell’attuale piacevolissima presentazione del “matematico impertinente”: “Il valore scientifico dell’opera di Lucrezio, afferma Piergiorgio Odifreddi (2013), risiede (…) nell’aver capito che gli argomenti scientifici, ‘addolciti col miele della letteratura’ (p. 147) sono fonti pure a cui abbeverarsi, per imparare grandi cose e sciogliere i nodi annodati nell’animo della religione e della superstizione (p. 23)”.

Insomma, naturalizzando l’abitudine a pensare in termini di elaborazione ricombinativa (se si proviene da un lavoro psicoanalitico) o dando voce artistica al materiale resiliente o, quantomeno, riflettendo su tale potenziale come cornucopia di possibilità nuove, potremmo, almeno qualche volta, veder dinamicamente all’opera la capacità di adattarsi e trasformarsi, così come, passandomi la metafora in un desiderio finale di leggerezza, ce lo potremmo rappresentare, considerando la milonga  11, che coinvolge anch’essa corpo anima e relazione, come un’avvenuta integrazione di elementi di varie culture, con i loro motivi traumatici e quelli di benessere: una situazione di musica e danza che mi sembra aver premiato proprio l’adattamento, senza perderne in energia creativa.

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Note:

– 1 Rimando gli eventuali interessati: 1. alla modellistica nata da tale studio in: Gariglio, Lysek, Creatività benessere. Movimenti creativi in analisi, Collana Psicoanalisi e Psichiatria dinamica, a cura di Leonardo Ancona, Armando, 2007; 2. alla scheda italiana del libro, 2007 (https://www.psicoanalisi.it/libri/3605 ) e francese, 2008 ( https://www.psicoanalisi.it/libri/4376 ); 3 a due commenti: 3a. Wilma Scategni (Anamorphosis n 7, 2009, pp. 120-122): “(…) Si tratta di un lento viaggiare “itinerando”, per tornare a un termine espresso dalla stessa Autrice, attraverso i percorsi labirintici della memoria e della relazione analitica, “riscoprendo i propri tempi”, attraverso le lente scansioni del mondo interno, propria dei percorsi dell’anima. Il pensiero junghiano attribuisce alla nevrosi una salutare spinta alla trasformazione, laddove il processo di individuazione sia arenato in schemi rigidi che ne inibiscono il procedere. (…) Solo un paziente e lento ripercorrere i propri passi, ampliando l’ascolto di quella che Jung definisce “funzione trascendente” (un “itinerando” per riprendere ancora il termine usato dalla Gariglio), può rendere possibile il passaggio dal cerchio ad una spirale, lentamente ascendente. Quest’ultima può permettere, tornando sui propri passi attraverso il peregrinare della memoria, una lenta ascesa, fatta di soste ripensamenti, periodiche regressioni e riflessioni. E’ così possibile ritrovare le potenzialità che nel percorso sono state perdute, trascurate o lasciate indietro, come nuovi punti di partenza. E’ questo il canovaccio su cui, con altri termini più vicini alla formazione di micropsicoanalisti, si muovono Gariglio e Lysek, per mezzo di un procedere attraverso tre modalità di espressione della creatività ri-lette in senso progressivo: “la creatività sintomo, la creatività sublimazione” e infine “la creatività benessere” come libera espressione di potenzialità creatrici. (…). Il messaggio più profondo (…) resta in questo e altri testi della Gariglio, l’invito attraverso strade accessibili, verso la riflessione sulla qualità della vita propria e altrui e sulle potenzialità della relazione umana come strada percorribile … Un cammino di speranza… (…) il libro è di lettura scorrevole, facilmente accessibile pur esprimendo concetti e formulazioni teoriche profonde e complesse”; 3b. Daniela Marenco (Editoria, Recensioni 2008, IIM): “(…) Secondo Gariglio e Lysek, nell’inconscio, oltre ad informazioni derivate da esperienze conflittuali e traumatiche, esistono informazioni legate ad esperienze di soddisfazione: le tracce di benessere. Le tracce “conflittuali-traumatiche” sono correlate ad affetti molto più intensi rispetto a quelle di benessere, ciò comporta una differenza nel loro manifestarsi: mentre le prime fanno irruzione in modo esplosivo, le seconde scaturiscono in modo più pacifico ed egosintonico. Questa diversa modalità di funzionamento energetico fa sì, secondo gli autori, che solo quando i nuclei traumatici-conflittuali siano disattivati attraverso un lavoro psicoanalitico, le tracce di benessere possano manifestarsi assemblandosi in modo originale con i residui dei nuclei conflittuali rimossi. Da un punto di vista energetico si è spesso fatto coincidere la riuscita di un lavoro psicoanalitico con la disattivazione dei nuclei traumatici ed il conseguente disimpegno di energia psichica che prima alimentava la ripetizione e le difese psichiche. Gariglio e Lysek indagano oltre e ipotizzano, basandosi sulla loro esperienza clinica, vie di reinvestimento energetico fisiologiche e più appaganti per l’individuo.”  torna su!

– 2 Su quest’onda, segnalo Abbandonata dal destino: 2003, RegistaPeter Levin. Titolo originale, Homeless to Harvard: The Liz Murray Story. Il film rende conto della possibilità di sopravvivere, nonostante un ambiente familiare traumatico (genitori tossicodipendenti e madre schizofrenica) facendo leva su poche ma reali risorse affettive e sul lascito generazionale paterno e ambientale di “spinta a conoscere, ad imparare”: tracce vitali, capaci di diventare protagoniste; un desiderio di tanti, qui, diventato realtà narrativa.  torna su!

– 3 Selez. di Opere presentate alla Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, 8-9 novembre 2011, Unione Industriale, Torino. 11° edizione.  torna su!

– 4 I dati li ho tratti dall’opera scientifica di riferimento: Max Guérout (GRAN) et Thomas Romon (INRAP), Tromelin. L’île aux esclaves oubliés, 2010, éditions du CNRS, dal documentario di 52 minutes, Les esclaves oubliés de Tromelin, MC4, dagli incontri epistolari con Max Guérout e qualche collaboratore e dal “Compte rendu préliminaire de la quatrième mission archéologique de fouille archéologique sur l’île de Tromelin” di Guérout & Romon (2013), gentilmente fattomi pervenire.  torna su!

– 5 Max Guérout, esperto di fama mondiale nel settore dei naufragi e dell’archeologia subacquea, si dedica da una ventina d’anni allo studio dei relitti, soprattutto delle navi negriere. Fondatore del GRAN, il gruppo di ricerca in archeologia navale, il 15 ottobre, 2013 riceve il premio Georges Leygues, per i suoi trent’anni di ricerca in archeologia navale. Per Guérout, che confidava di poter individuare ancora “un po’ d’umanità nascosta sotto la sabbia dell’isola” (Rollon Mouchel-Blaisot, 2010, Introduzione, Ed. CNRS, p. 12), la sua professione è piuttosto una “passione”.  torna su!

– 6 Dal Forum GRAN: “Tromelin: archéologie et psychanalyse 01 Déc 2013 09:16 7924”. M. Guérout: “Nous sommes en relation depuis près d’un an avec une psychanalyste italienne, Mme Daniela Gariglio, qui travaille sur le thème du traumatisme transmissible de père en fils, appellé “inesprimibile genealogico” (Nicola Peluffo, 1991). L’application de ce thème aux descendants d’esclaves l’a amenée à s’intéresser à nos recherches à Tromelin. Elle a présenté vendredi dernier (29 novembre 2013) à un colloque qui s’est tenu en Sicile, une communication où elle développe également, en évoquant le parallélisme entre archéologie et psychanalyse, un autre thème lié à la solitude et à l’isolement qui est le passage de la solitude traumatique à la solitude créative, en l’illustrant son propos par la démarche des esclaves malgaches abandonnés sur l’île de Tromelin.  Annonce du colloque (…). Mme Daniela Gariglio nous apporte quelques précisions concernant, d’une part l’expression “inesprimibile genealogico” traumatique (…) mais aussi son aspect non traumatique (…).”. Max Guérout.  torna su!

– 7 Anche Antonio Imbasciati (2013, p.13) scrive, a proposito di un andare verso incontri a più voci, capaci di relazionarsi senza conflitti o reciproci atteggiamenti di superiorità: “La scarsa permeabilità tra la scienza psicoanalitica e altre scienze della mente sta ultimamente attenuandosi, soprattutto nei confronti delle neuroscienze, che, da Kandel in avanti, hanno riscoperto la psicoanalisi, tuttavia, al di là di valorosi ed anche coraggiosi scienziati di ambo le parti, perdura tra queste isolamento, misconoscenza, difficoltà di confronto, e mancanza di integrazione.”. Al riguardo, Imbasciati, psicoanalista, psicologo sperimentale, neuropsichiatra, autore di 53 volumi e 300 saggi… (cfr. 2005, Pref. Mauro Mancia) propone “una nuova metapsicologia, in accordo con le attuali altre scienze della mente e la memoria implicita” e, in Dalla Strega di Freud alla nuova metapsicologia (Imbasciati, 2013), appena presentato (12/2014) dal Centro Torinese di Psicoanalisi, ho trovato molto stimolante il richiamo, fatto agli psicoanalisti, ad “essere scienziati” come lo fu Freud, “non solo professionisti” (p. 262). Vale a dire, non solo “descrivere ma anche spiegare” (pp. 13-18), uscendo dalla “confusione tra descrizione e spiegazione, tra clinica e teoria, tra scoperta e invenzione, tra metodo e scoperta…” (p. 17).  torna su!

– 8 Rimando a un film 12 anni schiavo (2014), regia e sceneggiatura Steve McQueen, Usa, tratto da un’autobiografia, diventata subito un best seller che, a metà dell’Ottocento, ha rivelato al pubblico americano i retroscena dello schiavismo in diverse piantagione della Luisiana. Di nuovo: segreti, non detti, negazioni, rimossi…  torna su!

– 9 Questi segreti svelati mi hanno anche riportato ad un vecchio scritto sui segreti della struttura ossessiva di Wilhelm Stekel (1934), generosamente tradotto da Nicola Peluffo (1999), per allievi e colleghi. Nel 2003, Peluffo, terminando con un esempio tratto dal lavoro di Stekel (1934), scrive sul segreto “(…) Il segreto può essere qualsiasi elemento rappresentazionale, anche banale; ha un suo contenuto manifesto che sta alla base delle sintomatologie comportamentali del nevrotico che ne è portatore. Ma non è tanto il contenuto manifesto cioè il trauma in sé, che è patogeno, quanto il fatto che il contenuto manifesto vincola, come il ricordo di copertura, una costellazione di rimossi che alimentano il vissuto di qualche cosa da non rivelare (neanche a se stessi). Sovente, il segreto non è il fatto in sé, ma è la perdita dei nessi tra esso, in quanto segreto, ed i sintomi nevrotici che ne riproducono in maniera modificata, come per un sogno, sia la rivelazione desiderata e repressa che la parziale soddisfazione mascherata. Il principale desiderio rimosso è proprio quello di rivelarlo. La rivelazione è una vendetta che soddisfa la spinta aggressivo-distruttiva verso l’oggetto di cui (o per cui) si conserva il segreto ed è proprio questa aggressività che si trasforma in angoscia che a sua volta si vincola (e si scarica parzialmente) in sintomi.”. Quindi, il segreto e l’uso che se ne fa, riguarda tutti.  torna su!

– 10 “In micropsicoanalisi esiste un supporto tecnico, scrive Peluffo (1991), la ricerca genealogica, che ha lo scopo di vincolare nell’attuale e quindi anche nella relazione transferale (…) elementi ripetitivi (…). In pratica, l’analizzato sarà indirizzato a reperire in tutti i modi possibili ogni dato che compete la sua famiglia e gli antenati, sin dove è possibile, fino a trovare le determinanti traumatiche soggettivamente riconosciute come tali, per poter inserire in un codice rappresentazionale-affettivo riconoscibile il suo inesprimibile genealogico traumatico. (…) Così facendo, riprende contatto con i suoi antenati, li reintroietta e li elabora” (pp. 29-32).  torna su!

– 11 La “milonga” è un genere musicale folkloristico (oltre che sala da ballo), imparentata con il tango; danza popolare di origine Argentina, ha un ritmo semplice e lineare di 2/4, ha somiglianza principalmente con altri ritmi come il candombe  africano, genere che sintetizza molte danze di origine africana portate nel continente americano a seguito della tratta degli schiavi del XVII e XVIII, e la habanera di origine iberica. Le origini risalgono ai primi anni del XIX secolo nelle case da ballo frequentate da gente povera o comunque non benestante (“habanera dei poveri”). Il vocabolo milonga può significare parolaconfusionelitigio. L’origine precisa è incerta e discussa (Etimologia: ← dallo sp. amer. milonga; propr. ‘chiacchierio’, deriv. da una lingua angolana). Possiede elementi della musica africana nella sua struttura ritmica e influenze di danze creole ed europee importate nella regione di Buenos Aires attraverso diverse vie, principalmente dal Perú, Spagna, Brasile e Cuba, quando si viaggiava dall’America all’Europa e viceversa acquisendo trasformazioni e adattamenti in ogni regione specifica. La musica e il ballo sono il risultato di una miscela di ritmi e melodie con una forte componente nostalgica e sentimentale. Le storie raccontate sono legate anche a quella cultura della strada, dei combattimenti con i coltelli e delle forti passioni, raccontati nei testi di Evaristo Carriego e Jorge Luis Borges. Una cultura che viene dal basso… (Da Wikipedia).  torna su!