Forse non è inutile premettere una breve nota a memoria della “resistibile ascesa” dell’idea psicosomatica. In una cultura fortemente separativa come quella occidentale in cui viviamo, centrata cioè sulla separazione cultura-natura e, di conseguenza, mente-corpo, il discorso psicosomatico, nato intorno alla metà del secolo scorso, si è affermato con molta difficoltà, sia nel mondo medico ufficiale che nella coscienza collettiva, dove peraltro risulta ancora in gran parte sconosciuto. E si capisce bene questo, perché la medicina psicosomatica ribaltava lo schema eziologico classico della malattia, che la voleva inequivocabilmente generata da una specifica lesione o disfunzione organica, nello schema secondo cui è l’impatto psicologico della quotidiana lotta dell’individuo per l’esistenza la causa prima di quella disfunzione o lesione d’organo in cui consiste la malattia. Lotta per l’esistenza che assume un carico psicoemotivo tanto più gravoso quanto più difficile e antico si presenta il quadro delle relazioni, degli scambi e delle interazioni socio-familiari in cui l’individuo è inserito; mentre il contenuto libidico di questo carico riguarda stati affettivi ambivalenti, erotici, aggressivi e ansiosi allontanati dalla coscienza e, per questo motivo, suscettibili di somatizzarsi.
La somatizzazione sarebbe perciò una via di scarico e in qualche modo di liberazione surrettizia di questo fardello, che trasferisce sul piano corporeo ciò che corporeo non è. Il carico torna allora a farsi presente sotto “mentite” spoglie, obbligando questa volta il soggetto a farsene veramente carico!… E tutto questo è successo perché lo stesso non ha potuto elaborare in termini psichici o simbolico-fantastici quanto stava vivendo.
Posto di fronte a una contraddizione che ha tutta l’aria di non volersi risolvere per conto proprio, incarnando evidentemente un dilemma evolutivo (non solo personale) che per essere risolto richiede l’impegno diretto del suo portatore, si aprono in genere due possibili vie di sviluppo per essere affrontata e risolta in una cura: o la problematica resta all’interno della psiche caratterizzandosi in senso psicopatologico, o si trasferisce sul soma diventando malattia organica. Quest’ultima soluzione è una sorta di trascrizione. In musica, significa adattare un pezzo scritto per un certo strumento all’esecuzione da parte di un altro strumento. In cinematografia si usa dire “adattamento” o “riduzione” cinematografica di un’opera letteraria. Questa è in sostanza la somatizzazione: una trascrizione, un adattamento o una riduzione, in questo caso dal piano psichico che gli era proprio a quello fisico-corporeo.
Questa è però la concezione psicosomatica in senso stretto, mentre oggi sarebbe auspicabile che si affermasse una visione più ampia che veda la malattia come l’epifenomeno, con finalità ricostruttiva, di un evento che è accaduto al Sé dell’individuo, inteso – per usare una metafora informatica – come unità nucleare di scambi e processi di rete a doppia interfaccia: tra mente e corpo, e tra questi, considerati unitariamente, e l’intero sistema. Ogni punto nucleare o plurinucleare (come ad esempio la famiglia o una qualsiasi altra organizzazione) è in rapporto di interdipendenza energetico-funzionale e di corrispondenza patico-analogica con ciascun altro punto della rete e con la rete nel suo complesso.
Ciò che accade al Sé si inscrive perciò contemporaneamente come simbolo-sintomo nei due principali organi-medium deputati a rappresentarlo al mondo: la psiche e il corpo, laddove la psiche, in accordo col pensiero esoterico-sapienziale, può essere considerata come un corpo più sottile, etereo, e il corpo come una psiche più densa, terrestre e ctonia, quindi più inconscia che mai. “Come è sopra così è sotto” suona la più importante massima ermetica.
L’evento patogenetico costituisce pertanto una singolarità sincronica (nel senso junghiano, rivisitato, di sincronicità) che scaturisce da una particolare interazione/intersezione dei due fondamentali assi energetico-funzionali (e iconico-trasportatori) che regolano ogni sistema vivente, l’uomo in particolare: quello verticale del sopra-sotto con quello orizzontale del dentro-fuori. Il “misterioso salto” dalla mente al corpo esiste anche in questa nuova accezione, nel senso che ciò che allora salta, più che il “male” in sé, è la sua visibilità, che si trasferisce tutta sul soma, sull’esteriorità dell’essere, perdendo in sostanza la possibilità di riconoscersi, per lo meno in prima istanza, nella sua più intima essenza, quella simbolico-relazionale.
Secondo questa visione, tutte le malattie sono allora da considerarsi psicosomatiche nel senso più ampio del termine, come singolarità sincroniche, ma l’accettazione di questo principio, nonostante i progressi fatti, è ancora ben lungi dall’essere accettato dalla scienza medica ufficiale e, in corrispondenza analogico-funzionale, dall’opinione comune.

In principio era la pelle

Ma veniamo alla pelle, che ci interessa più da vicino, cercando di individuarne il linguaggio simbolico, la sua peculiare intelligenza, attraverso le interconnessioni anatomo-funzionali che la caratterizzano.
La cute rappresenta l’organo più esteso del corpo umano, con una superficie nell’adulto di circa 6 m2. Manto straordinario! Ma la meraviglia continua, perché un centimetro quadrato di questo manto contiene: 100 ghiandole sudoripare, 15 ghiandole sebacee, da 100 a 500 corpuscoli sensitivi, 1 metro di canali vascolari, 4 metri di cavi nervosi e 3 milioni di cellule. La sua origine si perde nella notte dei tempi, poiché si trova già tutto in potenza contenuto nell’ectoderma, che è il primo dei tre foglietti embrionali. Insieme, attenzione! a un suo, altrettanto potenziale, “gemello”. A metà della terza settimana dello sviluppo dell’embrione umano, infatti, l’ectoderma, dà origine agli abbozzi di due diversi sistemi: quello nervoso e quello cutaneo superiore (l’epidermide). La comune origine embriologica ne giustifica quindi l’analogia funzionale, continuando a promuovere una più o meno occulta interazione.
Il concetto di “Io” (”Io sono questo e non quest’altro”) si sviluppa proprio a partire dalla nostra pelle, che dagli albori della nostra vita ci invia continui messaggi sensoriali che ci permettono di discriminare puntualmente il mondo esterno da quello esterno. All’inizio siamo ciò che tocchiamo, ma in seguito impariamo a distinguere sempre più nettamente il soggetto dell’esperienza dall’oggetto esperito. La pelle è il confine della nostra sfera individuale, che ci separa inesorabilmente dal mondo esterno, ma è anche quel medium altamente sensibile che ci permette di entrarvi in con-tatto per realizzare quelli scambi indispensabili a ogni processo vitale. Allo stesso modo possiamo dire che l’Io è la pelle del nostro mentale. Nei pazienti schizofrenici assistiamo alla rottura di questa “pelle psichica”, con la conseguente perdita della propria delimitazione ed “emorragia” dei contenuti psichici profondi. “Senza pelle” è infatti l’indicativo titolo di un interessante film di Alessandro D’Alatri del 1994, che narra le peripezie erotico-sentimentali di un giovane psicolabile.
Nel corso del suo sviluppo, la psicoanalisi si è andata sempre più avvicinando allo studio di quelle aree precoci dello sviluppo umano che connotano l’esperienza psichico-aurorale. Di questa feconda e affascinate ricerca mi limito qui a ricordare, per restare aderente al tema della pelle, solo il contributo originale di Didier Anzieu col concetto di Io-Pelle, di un contenitore cioè della vita psichica, l’Io appunto, che ha radici profonde nella pelle del bambino e della pelle biologica conserva alcune funzioni fondamentali. 1
In chiave psicosomatica, dunque, l’analogia Io-pelle rende noto della spiegazione di certi disturbi cutanei, in quanto rappresentazioni analogico-simboliche di situazioni che non possono essere adeguatamente espresse dall’Io. La pelle si presta quindi a funzionare come una pellicola su cui vengono impressionati i diversi contenuti mentali inconsci e, contemporaneamente, come lo schermo su cui vengono proiettati per rendersi visibili a tutti gli “interessati”. E’ interessante notare che la parola “film” non è altro che il corrispettivo inglese del nostro “pellicina”. Preziosissimo e immaginifico telo! Numerose condizioni emotive si imprimono ed esprimono dunque su di esso, nei modi, nelle forme e nei colori più svariati.

Il linguaggio della malattia: la psoriasi

 Visto che la malattia si pone a noi dinanzi come un’entità aliena inquietante e minacciosa che invade la nostra casa (mente-corpo) assoggettandola, non possiamo in alcun modo cacciarla, come pretende la nostra farmacopea, senza prima aver sentito cosa ha da dirci e cosa vuole da noi. Essa reclama imperativamente la nostra e l’altrui attenzione tanto più se è acuta, terminale o cronica come, in quest’ultimo caso, è risaputa essere la psoriasi. Ma per ascoltarla è prima necessario intenderne il linguaggio straniero, che è straniero solo perché siamo noi che siamo diventati stranieri alla vita, alla terra, al nostro stesso essere.
Il linguaggio della malattia, intesa come condizione in cui siamo gettati, è invero il linguaggio più antico del mondo, di cui la vita in tutte le sue innumerevoli forme è intessuta. E’ la lingua madre dei simboli, che a livello di coscienza è andata persa col processo d’incivilimento, ma che ancora oggi continua a parlarci in svariati modi e in ogni dove, compreso il dove che noi considerato più prezioso: il corpo. E guai se si fosse persa del tutto, perché nel simbolo é inscritto il dialogo continuo tra individuo e società, archetipo e storia, ontogenesi e filogenesi, eredità e ambiente, identità e alterità. Il sintomo, e l’organo scelto come sede d’elezione e scranno da cui parlare, porta quindi con sé questa doppia valenza semantica, di cui occorre tener conto se vogliamo capire fino in fondo la vita-che-sta-male.
Per quanto attiene al mio campo, della psoriasi accennerò brevemente solo alle cose di maggior rilevanza simbolica.
Innanzitutto colpisce nella lesione psoriasica una doppia espressività, che è insieme cromatica e strutturale: il rosso dell’eritema e il biancore della desquamazione. Nel linguaggio universale dei simboli, di cui il sintomo si fa portavoce, ciò significa che sono in gioco due opposti movimenti psicolibidici, contraddittori tra loro: il primo, eruttivo ed espansivo, come si trattasse di un fuoco vulcanico che volesse violentemente scaricare all’esterno quanto si trova dentro compresso; il secondo, invece, contrattivo, in chiara controtendenza rispetto al primo: indurire ciò che vuole fluire liberamente, come fosse un tampone emostatico, sbiancando al contempo un rossore oltremodo imbarazzante… A livello psicologico sembra chiaro in questo secondo movimento un tentativo di riportare l’ordine e il controllo minacciato dal primo movimento.
In questa visione bisogna aggiungere che la pelle nella psoriasi è caratterizzata da una replicazione molto accelerata, passando dal normale turnover di circa un mese a solo pochi giorni. La desquamazione corrisponderebbe in sostanza a un desiderio di “muta” dell’Io-pelle, che però non riesce mai a compiersi del tutto, perché si realizza solo concretisticamente nel soma e solo nei luoghi designati.
A livello terapeutico possiamo dire che una psicoterapia a orientamento analitico di pazienti psoriasici – che pretenda cioè di addentrarsi negli strati più profondi della personalità per risalire all’antico – risulta in genere difficile e, tutto sommato, sconsigliabile, poiché il paziente è molto resistente a far rientrare nella psiche quanto aveva inconsciamente e drammaticamente estromesso (dal suo sguardo) con la somatizzazione. Il percorso a ritroso, invece, dall’estrema periferia della corporeità, la pelle, al suo centro incorporeo rappresentato dalla psiche, può essere compiuto con maggior vantaggio con una psicoterapia psicosomatica ad approccio simbolico, che consisterebbe nel far parlare il sintomo, affinché raccontando la sua storia di “passione” possa riconoscersi “incarnazione” di un altro dal sé corporeo, simbolico-relazionale appunto. Misterioso salto quindi, caduta, croce, e perché no, resurrezione!

Un caso

 L’ultimo e recente intervento psicosomatico fatto non è però su una psoriasi vera e propria, ma su una forma rara di pitiriasi annoverata fra le parapsoriasi. È una dermatite papulosa e desquamante a eziologia ignota che si manifesta con eruzioni che si ripetono in gittate successive che virano per lo più nella forma cronica. Una giovane di bell’aspetto viene da me dopo avermi trovato in seguito alla lettura di un mio articolo apparso su una rivista di settore. 2
Il suo bel corpo era orrendamente deturpato da queste pustole rosse che presto si desquamavano, lasciando il terreno cutaneo solo per ricomparire alla prossima e imminente invasione. La portava già da oltre un anno con grande sconforto e patimento poiché non aveva trovato nessun rimedio farmacologico adatto a contrastarla, ma ciascun medico ne aveva sempre qualcuno da proporre in abbinamento ad altri esami e controlli da seguire. Finché i suoi genitori non la condussero a Stoccolma, dove risiede il maggior esperto mondiale di questa malattia. È stato costui il primo – e sottolineo il primo – a parlarle della possibilità che un fattore psicologico potesse trovarsi implicato nella genesi della malattia.
L’infezione dermatologia fa la sua comparsa uno o due mesi dopo un maldestro e precipitoso tentativo di autonomia e distacco dalla famiglia per iniziare una convivenza col suo fidanzato, tentativo che è stato sul punto di fallire già al primo mese di insediamento nella nuova casa, talmente precaria e velleitaria era la loro relazione. La “cosa” trova allora il suo punto strategico d’inserimento nella pelle della ragazza, anche perché l’incerto confine dell’individualità, che sempre connota le problematiche di dipendenza, è costellato simbolicamente da due fattori “esterni”: lei fa la costumista e lui fa i tatuaggi.
Il sintomo ha parlato allora in lei del suo imperioso desiderio di esprimersi ma al fine onnipotente di imprimersi indelebilmente nell’altro – e, di converso, di essere da questi indelebilmente impressa –, dell’impossibilità di realizzarlo perché l’altro non ci sta o ci sta solo finché si gioca in superficie, della ferita, dell’ansia e dell’insicurezza che questo rifiuto le provoca con la conseguente feroce rabbia, del resto subito rappresa, verso il compagno pauroso e recalcitrante. “Mi hai marchiata fin nell’anima, cosa vuoi di più!”, sembrava volergli dire attraverso il furore eritematoso.
Il mio compito terapeutico, anche a fronte di una quanto mai vaga capacità elaborativa della paziente, si definiva e delimitava da sé. Primo fra tutti favorire attraverso la mediazione transferale lo sciogliersi del legame fusionale tra i due ragazzi, che si realizza infatti nell’arco di quattro mesi, con la presa di coscienza dei significati emotivi veicolati dalle placche cutanee. La sintomatologia regredisce sensibilmente ma non sparisce: isolati focolai persistono in rapporto diretto col quantum libidico non ancora ritirato. La completa remissione della stessa, confermata a distanza di due mesi dall’ultima seduta prima delle vacanze, ha luogo con l’accettazione dell’ineluttabilità della separazione, per il bene della sua salute cutaneo-mentale, e col reinvestimento pressoché immediato in una nuova relazione, che si annunciava un po’ più matura e rassicurante della precedente. Durata totale del trattamento otto mesi. L’Io-Pelle è così tornato a farsi terreno e “vaso” di nuove alchimie dell’eros tra sé e l’altro da sé, tra anima individuale e anima del mondo

© Baldo Lami

Note:

1 D. Anzieu, L’Io-pelle, Borla, Roma 1987; (e successivi sviluppi in) L’epidermide nomade e la pelle psichica, Cortina, Milano 1992; Il pensare. Dall’Io-pelle all’Io pensante, Borla, Roma 1996; Gli involucri psichici, Masson, Milano 1997.
2 Notiziario ASNPV. Tutela del malato di psoriasi e vitiligine, N.10, Anno sesto, Maggio 2001, Milano.