Premessa

Dopo molti anni di lavoro di supervisione nelle comunità per minori e nelle comunità per donne e bambini, ho deciso di vincere alcune riserve e scrivere il presente articolo che si differenzia, almeno in parte, dai precedenti di carattere strettamente clinico. Ritengo, del resto, come ci ha insegnato Freud, che anche il lavoro dello psicoanalista non possa  essere decontestualizzato e che, soprattutto in alcuni momenti storici, in cui si assiste a un marcato degrado socio-culturale, non ci si possa esimere da un’analisi rigorosa della situazione nella quale si opera e nella quale emergono e si espandono condotte che in altri momenti sono state considerate aberranti e soggette a repressione o sedazione. Per fare qualche esempio, posso citare i casi di femminicidio che nel 2013 sono stati 128, il 10% in più dell’anno precedente. Passando poi ai reati minori, i dati preoccupanti riguardano il numero dei furti: uno ogni minuto (sono i dati dell’agenzia Transcrime). Nel 2012 sono stati denunciati 240 mila furti nelle case e nei primi mesi del 2013 si è registrato un nuovo aumento, con prevalenza nell’Italia settentrionale. Preoccupanti e al contempo illuminanti, circa le ragioni dell’inarrestabilità di questi fenomeni, sono le dichiarazioni dei rappresentanti di quelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto dell’ordine pubblico, secondo i quali le difficoltà di assicurare alla giustizia i responsabili di fenomeni diffusi come i furti, sono lo scotto che si deve pagare per il fatto di vivere in un Paese democratico. A me pare, piuttosto, che sia sistematicamente rinnegato e violato il contratto sociale sul quale si basa la nostra Repubblica, con il rischio che si proceda verso un progressivo imbarbarimento della società, in cui alla fragilità delle istituzioni, corrisponda la “normalizzazione” delle condotte devianti. (Per un approfondimento dell’argomento rimando i lettori all’art. di P. Bolmida “Diagnosi dei disturbi di personalità: il disgusto della civiltà”).

In questo contesto si inserisce anche l’argomento che mi accingo a trattare.

Esposizione

La legge 140 del 1983 sancisce il diritto dei minori di crescere ed essere educati nell’ambito della propria famiglia. Essa costituisce il corollario dell’art. 30 e dell’art 36 della Costituzione, che stabiliscono rispettivamente il diritto e il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento, educazione e istruzione dei propri figli e il sostegno dello Stato alla famiglia.
Queste le basi sulle quali, anche in Italia, come in tutti i paesi del mondo sensibili ai problemi dell’infanzia, negli ultimi venti anni sono nati diversi servizi per la valutazione e il sostegno della genitorialità.
Inoltre, nel rapporto dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) del 2002, sono definiti i criteri di valutazione delle competenze genitoriali e delle possibilità di recupero. Si considerano pregiudizievoli per la salute del bambino “tutte le forme di cattiva salute fisica e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale…”per le quali i genitori sono ritenuti responsabili.
Progressivamente gli orfanotrofi sono andati scomparendo e sono nate le comunità per minori o per mamme e bambini, per quei nuclei familiari o quelle situazioni soggette a giudizio da parte dell’autorità giudiziaria competente (Tribunale per i minorenni e/o Tribunale ordinario).
Inizialmente il collocamento in comunità di madri e bambini era previsto solo nelle strutture per tossicodipendenti con figli tra 0 e 5 anni, con l’intento di tutelare la relazione primaria madre-bambino e motivare la donna ad abbandonare l’abuso di sostanze. Tentativi lodevoli, se si considera la buona fede degli operatori, ma pressoché inutili e quasi tutti fallimentari, perché non tengono conto della psicopatologia sottostante all’abuso di sostanze e non considerano che l’unica relazione possibile per un tossicodipendente, è quella con la sostanza.
La crescente attenzione al maltrattamento della donna in ambito familiare ha prodotto la nascita di centri anti violenza e, in concomitanza, l’apertura di case di accoglienza per donne/madri vittime di maltrattamenti.
Queste strutture non hanno la qualifica di “comunità terapeutiche” e, pertanto, dovrebbero escludere l’accoglienza dei casi di tossicodipendenza, dei casi psichiatrici e dei soggetti in attesa di giudizio per reati penali o agli arresti domiciliari.  La definizione “casi sociali” attribuita alla casistica di queste comunità, comporta, a mio parere, un implicito frainteso, che impedisce o ritarda la diagnosi, da parte dei servizi competenti, di stati psicopatologici, inquadrabili nell’ambito delle caratteropatie o del disturbo antisociale di personalità, assolutamente incompatibile con le capacità genitoriali.
Inoltre, nel breve volgere di pochi anni (meno di una decina), la riduzione dei finanziamenti ai Comuni, ha portato alla necessaria contrazione delle spese da parte dei servizi sociali che cercano di evitare i gravosi costi delle comunità, rimettendo all’autorità giudiziaria il compito di disporre i collocamenti in comunità, solo per i nuclei familiari maggiormente compromessi, già noti ai servizi territoriali da più generazioni (2 o 3) a causa di forme psicopatologiche spesso anche  diagnosticate: perversione, tossicodipendenza, alcolismo ed altre condotte antisociali che si manifestano con comportamenti violenti,  abusi sessuali, furti,  spaccio di sostanze, vagabondaggio, sfratti,  perdita reiterata del lavoro, ecc.
Ne consegue, sempre più di frequente, l’emissione di decreti temporanei di affido dei minori ai servizi sociali, affinché, previo collocamento in comunità con la madre (se consenziente), valutino in senso prognostico, la possibilità di recupero della genitorialità e indichino quale sia la scelta migliore tra l’affido eterofamiliare e l’adozione dei minori.
In linea teorica, il collocamento di questi nuclei familiari in comunità, dovrebbe prevedere soggiorni brevi (infatti, si chiamano “comunità di pronto intervento”), ma le cose non sempre vanno così.

La casistica

A titolo esemplificativo citerò alcuni casi:

Una donna di 40 anni, già madre di due figli avuti da una precedente unione (entrambi in affido eterofamiliare), è collocata in comunità su sua richiesta, per ricongiungersi con i due figli minori, avuti dal secondo marito. I bambini (7 e 4 anni) infatti, erano già stati accolti nella comunità per minori, su segnalazione delle maestre che avevano notato trascuratezza e comportamenti erotizzati con gli adulti.  Il padre dei bambini, uomo dedito all’abuso di alcool e stupefacenti, aveva subito una condanna per spaccio.  Il nucleo risulta senza fissa dimora a causa di sfratto per morosità. La bambina maggiore ha una diagnosi di ritardo mentale lieve.
Il decreto del T.M., che affida temporaneamente i bambini al servizio sociale, chiede la valutazione delle possibilità di recupero delle capacità genitoriali e di indicare quale sia la soluzione migliore tra l’affido e l’adozione dei minori.
La permanenza in comunità della mamma con i bambini è durata due anni, nonostante i dati anamnestici di entrambi i genitori non lasciassero dubbi sulla gravità della situazione. Sono state impiegate risorse immense: oltre al lavoro degli educatori, che hanno riferito puntualmente le osservazioni dell’interazione madre-figli e padre-figli, registrate durante gli incontri protetti, sono state coinvolte anche le strutture sanitarie locali (servizio handicap e neuropsichiatria infantile) e infine è stata eseguita una CTU. Nei due anni di permanenza in comunità la donna non ha mai fatto tentativi di ricerca di abitazione, né di lavoro, ha vissuto passivamente, incapace di prendere qualsiasi iniziativa autonoma, persino nella cura dei figli che seguiva, con gravi mancanze, solo su sollecitazione degli educatori.  La relazione, prevalentemente anaffettiva, assumeva toni molto aggressivi ogni qualvolta le richieste dei figli le impedivano di soddisfare i suoi bisogni e desideri: mangiare, fumare, guardare la televisione, dormire e uscire con gli uomini. Per quanto riguarda i bambini, è stato riscontrato un crescente peggioramento del loro stato psicologico, con ricadute nel rendimento scolastico e nel comportamento.  Le relazioni presentate dai diversi operatori al Tribunale per i minorenni sono state in perfetta sintonia: tutte hanno confermato l’irrecuperabilità delle capacità genitoriali. Infine, dopo sette mesi dal deposito dell’ultima perizia, è stato emesso un decreto di adozione immediatamente esecutivo e, nel giro di poche ore, madre e bambini sono stati separati. Viene spontaneo chiedersi se non sarebbe stato possibile ridurre il danno psicologico di tutte le persone coinvolte, in primis dei bambini, e il danno economico della società, grazie ad una tempestiva valutazione psicodiagnostica dei genitori per la quale, sin dall’inizio, esistevano tutti gli elementi.

Un altro caso grave è quello di P., una giovane donna che faceva abuso di benzodiazepine (e probabilmente non solo di quelle); il disturbo dipendente non era stato diagnosticato. Era stata collocata in comunità con la bambina di due mesi. Prima di quest’ultima aveva avuto altri tre figli, affidati ai rispettivi padri (tre diversi) e sui quali aveva perso la potestà genitoriale. In occasione della nascita dell’ultima figlia, la primogenita le aveva scritto che non voleva più incontrarla perché la considerava madre solo dal punto di vista biologico, capace di generare figli, ma incapace di accudirli e educarli. L’operatore della comunità incaricato di eseguire l’osservazione dell’interazione madre-bambino, aveva registrato momenti di dialogo della donna con la neonata, in cui le diceva che doveva fare la brava perché prima di tutto c’erano i bisogni della mamma e poi i suoi. Nei fatti P. si comportava di conseguenza: dimenticava i pasti e lasciava la bambina piangere, non le cambiava il pannolino, l’affidava volentieri a chiunque fosse disposto a tenerla per fumare o incontrare l’uomo di turno. Un trauma psichico perinatale aveva segnato la vita di P., marcando la relazione nei confronti delle maternità. Nata da parto gemellare (P. aveva una sorella monozigote), a causa di ignote complicazioni, la mamma morì durante il parto e alla bambina, per la quale era stato previsto un altro nome, fu dato quello della madre. In psicoanalisi è noto il senso di colpa del sopravvissuto: identificata nella madre defunta, P. cercava di eliminare i figli per far sopravvivere la madre. In tal modo, per coazione a ripetere, a livello fantasmatico, tornava alla fase antecedente il trauma, annullava psichicamente la morte della madre e cercava di tacitare il suo senso di colpa per averne preso il posto.

Nell’agire quotidiano, la coazione a ripetere si manifestava attraverso il tentativo di eliminare i figli abbandonandoli. E così accadde anche per l’ultimo.

Conclusioni

In un’intervista al Prof. N. Peluffo la giornalista gli chiese:

“Secondo Lei è più felice una persona che vive naturalmente la vita spendendo la totalità della propria energia nel lavoro, nella costituzione di una famiglia e nella procreazione dei figli o una persona che si impegni fino in fondo per realizzare una vocazione?”.  Lo psicoanalista rispose: “…anche quella della famiglia  è una vocazione, sebbene sembrerebbe essere una necessità. Una necessità è certamente la spinta alla riproduzione, che però non implica l’esistenza della famiglia…..”.

Peluffo non attribuiva un senso mistico alla parola “vocazione”, non intendeva cioè, come lui stesso specifica nel prosieguo dell’intervista, che una voce chiama a compiere una determinata azione. Nel caso della famiglia “la vocazione” corrisponde, piuttosto, alla capacità di identificarsi nell’immagine di genitore accogliente e presente, in grado di comprendere i bisogni dei propri figli e di instaurare con loro legami affettivi sufficientemente stabili e duraturi, tanto da tutelarli negli anni di dipendenza che, per la nostra specie, a differenza degli altri primati, è molto più lunga.   In assenza di queste caratteristiche l’atto riproduttivo si riduce a necessità biologica e al desiderio narcisistico di colmare il vuoto lasciato dalla mancanza di relazione oggettuale.

Bibliografia

P. Bolmida: Diagnosi dei disturbi di personalità: il disgusto della civiltà,
S. Freud: Il disagio della civiltà in Opere Vol. X, B. Boringhieri, 1978, Torino.
S. Freud: Totem e tabù in Opere Vol. VII, B. Boringhieri, 1978, Torino.
G. Ternavasio: Intervista al Prof. N. Peluffo, in Bagliori dall’alba dei tempi a domani, Il Capitello, 2003, Torino
OMS: Rapporto sulla salute e la violenza nel mondo, www.who.int