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prima parte

(estratto della relazione esposta dall’Autore in occasione del II Incontro Intensivo di Psicoanalisi tenuto a Fiuggi il 25 novembre 2007)
 

Un caso particolare, ma abbastanza diffuso di propensione all’insuccesso è quello della famiglia che abbia fatto un particolare investimento narcisistico su un figlio, in genere il primogenito.
Peluffo ha dimostrato nei suoi lavori, e noi psicoanalisti della sua scuola lo abbiamo verificato in oltre trenta anni di esperienza clinica, che il figlio gestato è per la madre un sostituto del fallo perduto: “Pene della madre-se stesso” lo definisce Peluffo con un efficace quanto sintetico neologismo.
Se il vissuto di castrazione della madre è particolarmente marcato, la sua riattualizzazione durante la gravidanza determina un attaccamento al figlio transitoriamente espulso che viene reintroiettato come proprio fallo, determinando un attaccamento simbiotico allo stesso che diverrà il veicolo delle proprie fantasie onnipotenti. Il primogenito sarà caricato di significati assolutamente irrazionali, diverrà una sorta di Idolo onnipotente che oscurerà i figli più piccoli, inesistenti nello psichismo materno se non come orpelli a completamento del progetto narcisistico costruito sul maggiore. E’ il classico esempio dei primogeniti presunti geni e dei fratelli di corredo.
Ecco il materiale esaustivo di un analizzato:
“Ho passato tutta la vita a dover essere diverso da mio fratello! Non gioco a pallone perché ci giocava lui. E invece mi sarebbe piaciuto! Avrei rinunciato a vivere se non fossi venuto qui! E’ ben triste! Per loro ho già lavorato: ora basta! Mi ero messo un freno artificiale per non superare mio fratello! Loro avevano puntato tutto su di lui: non potevo uscire io. Era come costruire un castello di sabbia! Arrivavi ad un certo punto e poi facevi ricrollare tutto e ripartivi sempre da zero!”
A distanza di un lungo periodo di lavoro analitico aggiungerà: “Credo che mamma avesse un solo figlio ed eravamo io e mio fratello messi insieme: io completavo le parti che non aveva lui. A me mi addestravano per dargli quello che gli mancava! Messi insieme avremmo fatto uno forte, ma io non esistevo!”
E ancora: “Ho pensato che se io fossi stato le cose che mia madre voleva in mio fratello e che lui non era, mi avrebbe voluto finalmente bene”
In realtà quest’uomo era così strettamente avvinghiato in un rapporto sado-masochistico con sua madre che la sua vita sentimentale era una collezione di conquiste e abbandoni. Una sola volta aveva avuto un trasporto notevole per una donna che poi aveva abbandonato. Ma la desiderava ancora: il desiderio tornava a farsi intenso e stranamente la prospettiva di riprendersela lo terrorizzava letteralmente. Il fatto è che da bambino lui sapeva che I suoi genitori si tradivano reciprocamente e per questo li aveva odiati inconsciamente con tutte le sue forze.
Ora non poteva tradire sua madre, come già aveva fatto suo padre. Il feroce giudizio superegoico formulato nell’infanzia gli si ripercuoteva contro, come un boomerang diabolico.
Un altro caso particolare di autolimitazione è quello di persone che, proveniendo da un ceto sociale modesto, ovviamente nel vocabolo non vi è nessuna accezione negativa, si trovano per propri meriti e spinta pulsionale ad occupare una posizione sociale ben più elevata. Penso a giovani professionisti o uomini di cultura che magari nell’infanzia hanno praticato in casa solo il dignitoso dialetto locale.
Molto spesso queste persone vivono nell’approccio sociale del nuovo ambiente che frequentano notevoli difficoltà di adattamento. Ovviamente non manca loro nulla per aderire al nuovo status: quello di cui soffrono è un vissuto di estraniazione dal ceppo da cui provengono ed un vissuto di profonda solitudine: sono così diversi dai loro familiari che a volte provano come un senso di consumato tradimento.
Il successo comporta la propria individuazione, dunque ci si stacca dal ceppo familiare.
Rimango stupefatto quando sento in televisione frasi del tipo “…un ragazzo di 32 anni…” Oppure nel vedere cinquantenni dire candidamente: “Non so cosa penserebbe mio padre di questa cosa!”
Come sappiamo è questa una caratteristica mediterranea ed una iperspecializzazione italiana. Sognerei una società in cui la famiglia venga sciolta per legge al compimento del 25° anno e si sanzioni gravemente colui che continua ad usare i vocaboli “papà” e “mamma”! E’ chiaro che non ho nulla contro l’eventuale affetto che si stabilisce tra consanguinei, ma non possiamo tacere sul fatto che la nostra sia una società di eterni figli dove “è sempre colpa di un padre e dei suoi sostituti”, una società di eterni bamboccioni che passano la vita nella tutela del passato.
Ecco il materiale di un uomo di oltre quarant’anni, con moglie e prole
“Mi vergogno di non fare un cazzo, ma anche di vivere. C’è contraddizione: dovrebbe essere delle due l’una. La giornata al lavoro non passa mai.
[che cosa ha fatto oggi? gli chiedo]
Sostanzialmente nulla. Dovrei eseguire delle mansioni che mi sono state assegnate. Ma non ci riesco perché vivo a margine di tutto. Perché o ho paura o mi vergogno. Ho paura di richiamare l’attenzione su di me. Non riesco a vedermi in queste vesti di protagonista. Che si fa una cosa perché l’ho detta io. E’ tutta la vita che ho questa difficoltà: quando si tratta di fare qualcosa ho il panico. Ad un certo punto io ho perso il contatto con la realtà…”
La difficoltà di apparire si rifà, ovviamente, al periodo dell’infanzia, quando il bambino sarebbe terrorizzato ad apparire, cioè mostrare il suo magro patrimonio genitale, al confronto di quello poderoso del padre e dei fratelli maggiori.
A questa persona non manca nulla di ciò che è richiesto per ben figurare nella vita sociale: brillante intelligenza, notevole cultura, doti comunicative, eloquio brillante, eppure se deve scrivere una semplice lettera commerciale comincia a sudare sudori fredddi e sprofonda nel panico.
E’ qua assolutamente evidente come quella che gli essere umani vivano sia la vita fantasmatica, marionette inermi e inconsapevoli, tirate da fili che affondano nel passato di un continuo presente inconscio.
[In questa seduta l’analizzato beve in continuazione, porta con sé dell’acqua]
“Bevo in continuazione perché ho sempre paura. [Di cosa?] della realtà. [Cosa le fa la realtà?] Veramente niente. Non è che il mondo gira attorno a me! Rimando in continuazione 10.000 cose che dovrei dire o fare fino a che non le abbandono. Perché mi viene una paura, un blocco! C’è anche l’aspetto che non voglio fare quello che mi dice il mio capo.
[la tutela dell’onnipotenza]
La paura di esserci, di essere presente. Perché uno deve aver paura di esserci? Perché se uno c’è, giustamente scorre il tempo. Dunque se uno vive deve poi morire. Sulla mia lapide scriveranno: “Non ha fatto mai un cazzo, è stato sospeso nel tempo. Non ha scambiato affetti”.
Ecco, anche stabilire una relazione affettiva soddisfacente è un successo.
Le spinte a farlo, rette dalla pulsione di vita entrano in conflitto con le spinte retrograde-conservative alimentate dalla pulsione di morte. Di qui il conflitto. La spinta verso l’altro, all’eterofilia, entra in conflitto con la spinta all’investimento incestuoso. Poiché, per completare il discorso del pene della madre-se stesso, accanto ad una madre che trattiene c’è sempre un feto-bambino che cerca di farsi trattenere. C’è uno scorrere parallelo di vissuti e strategie che si incontrano sul trattenere: il risultato è la stasi: soggetti che rischiano di trascorrere l’intera esistenza senza aver vissuto un solo attimo in sintonia con il mondo.
Per concludere non resta che parlare del problema del denaro, il dio-denaro, il nostro moderno vitello d’oro.
Credo sia evidente a tutti come il denaro, al giorno d’oggi, sia stato caricato di un significato che deborda quello, certo importante, di merce di scambio per ottenere beni ed agii. Il fatto è che nell’inconscio il denaro non esiste, non ha significato. Se voi presentate ad un bambino piccolo una banconota da 500 euro scolorita o una fiammante moneta da 2 euro e gli chiedete di fare una scelta, state sicuri che nove volte su dieci la scelta cadrà sul metallo luccicante. E’ per questo che hanno inventato le carte di credito: per rendere ancor più difficile alle persone la percezione dell’entità della spesa. Ho visto la stessa persona firmare sorridendo un assegno di qualche migliaio di euro e sudare freddo nel dover contare le dieci banconote da dieci euro che costituivano un pagamento!
Il nostro inconscio si forma dalla vita intrauterina fino al periodo di latenza, poi tutto è ripetizione, più o meno mascherata.
Se nell’inconscio il denaro non ha significato è evidente che esso, nella vita adulta si carica di altri significati. Freud, ad esempio ha dimostrato che esiste un’equivalenza simbolica tra denaro e feci. Ma per capire la relazione esistente tra feci e denaro presente, per esempio in modo manifesto in ogni nevrosi ossessiva, è prima necessario comprendere il significato psicologico di possesso. Il bambino impara a differenziare l’Io dal non Io, se stesso dalla realtà che lo circonda attraverso un processo lungo e complicato. Nel corso di questo sviluppo il bambino attraversa quello che Freud definì “Io del piacere purificato”.
Ogni cosa che offre piacere è percepita come se rientrasse nell’Io, mentre da questo viene escluso tutto ciò che può arrecare pena.
La maggioranza dei tossicodipendenti gravi sono, ad esempio, fissati a questo stadio di sviluppo: da questo punto di vista sono degli psicotici poiché non hanno accesso al principio di realtà.
Il bambino costruisce la sua classificazione di ciò che è Io e di ciò che non è lo è in base a questa idea: “Tutto quello che mi piace ed è gradevole vorrei metterlo in bocca ed inghiottirlo. Ciò che non mi piace lo sputo” E’ grazie a questo processo psichico che in un periodo ben preciso dell’infanzia dei nostri figli siamo costretti a vigilare con più attenzione: gli oggetti che i bambini vorrebbero ingurgitare non hanno fine e le dimensioni non contano!
Ma ben presto il bambino capisce che vi sono cose piacevoli che non può mettere in bocca, allora se ne appropria dicendo che “Sono mie!”, vale a dire “Mi piacerebbe ingoiarle, ma purtroppo non posso. Io le dichiaro come messe in bocca” In altre parole le incorpora psicologicamente, le introietta.
Quando un bambino realizza di perdere le feci, che suppone siano cose altamente preziose, in primis perché gli appaiono come una parte del suo corpo ed in secundis perché mamma e papà le vogliono, dunque devono essere importanti!, egli sente: “Questo è qualcosa che dovrebbe stare nel mio corpo. Ora sono fuori e non posso rimetterle dentro!” Ecco che le chiama “mie”, cioè le rimette mentalmente dentro, se ne riappropria psichicamente. E’ per questo che l’educazione sfinterica dell’essere umano è così lunga e faticosa!
Così il possesso indica cose che non appartengono concretamente all’Io ma a cui abbiamo dato la carica psichica di Io. I possessi di regola sono muniti di attributi di riconoscimento: “Quello rosso appartiene a me!”, cosa ben difficile a farsi con le feci, che si somigliano tutte! E parimenti con il denaro tutto uguale! Il bambino apprende che esiste il denaro, che ha una valenza di possesso, ma che non è “rosso”, ma sempre uguale, qualsiasi sia la persona che lo possieda. Il denominatore comune del denaro e delle feci è che essi sono possessi non individualizzabili. Ambedue le sostanze, malgrado l’alto valore che gli viene attribuito, sono considerate da una parte con disprezzo a causa della loro natura non individuale, non specifica. Di qui deriva il delirio attuale della personalizzazione dell’abito, dell’automobile, del telefonino, delle griffe di ogni genere e sostanza! Sono più mie del mio! In realtà le persone erotico-anali che amano il denaro, amano quel denaro che non è deindividualizzato: l’oro, le monete brillanti, i francobolli intonsi, i gioielli esclusivi, etc.
Il denaro diviene allora un oggetto di piacere o di punizione (come lo fu il rapporto con le feci), un sostituto anale. Può dunque essere accumulato irrazionalmente o irrazionalmente gettato.
Personalità anali proiettano il loro rapporto con le feci-denaro nel rapporto con il tempo e rispetto a quest’ultimo possono essere avare o prodighe o vivere entrambi gli atteggiamenti in modo oscillante: puntuali in modo maniacale fino alla frazione di secondo o grossolanamente inaffidabili. Ma il denaro ha anche una colorazione di fissazione ancor più arcaica, quella orale. E’ cioè, simbolicamente, sia nutrimento che amore: lo si comprende dalle faide che scoppiano in famiglia per i lasciti e le eredità. Anche se a determinare le donazioni fosse un computer superpotente istruito con algoritmi baciati dal crisma dell’equità, l’odio serpeggerebbe comunque.
Ma ora vi ho tediato abbastanza, fermiamoci per oggi, con l’immagine di questo vitello d’oro che, non avendo valore per l’inconscio, non ci nutre né soddisfa: in fondo è una piccola sadica consolazione pensare che anche l’uomo più ricco della terra, da tutto il suo potere e da tutta la sua sterminata ricchezza, non possa ottenere la felicità.

 

Written by: Quirino Zangrilli © Copyright

(Videografica: Luca Zangrilli ©)

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Parole chiave

senso di colpa
successo
castrazione

Riassunto

L’affermazione sociale comporta una continua lotta con una parte di sé che percepisce il successo come una colpa e spinge a pericolose condotte di autocastrazione punitiva.