Il rapporto di Freud con la biologia è stato spesso fonte di malintesi. Freud, per chiarire i processi psichici che andava scoprendo, si è appoggiato sulle conoscenze biologiche del suo tempo. Egli ha sempre affermato, per di più, che il corpo fosse il supporto della mente. Per esempio, nel suo articolo sull’inconscio, scrive che “l’attività psichica è legata al funzionamento del cervello più che ad ogni altro organo” [1].
Così, certi autori contemporanei, come Lionel Naccache [2], si sono sentiti autorizzati ad immaginare che Freud avesse potuto descrivere un inconscio cognitivo. Questa nozione è per lo meno strana: chi conosce l’inconscio, per esperienza analitica, sa che esso vive nella logica dei vissuti e dei desideri rimossi che contiene, finalizzata alla necessità di abbassare le tensioni troppo alte, a scapito della razionalità e delle esigenze della realtà.
Comunque è un sogno abbastanza comune e, probabilmente, legittimo, poter sovrapporre le conoscenze analitiche a quelle delle neuroscienze. In effetti, il dialogo tra psicoanalisti e neuroscienziati è molto interessante dal punto di vista della ricerca. Basti pensare al libro di François Ansermet e Pierre Magistretti, A ciascuno il suo cervello. [3] Però non va dimenticato che questi autori si basano essenzialmente sul Progetto di una psicologia [4], opera dell’epoca pre-psicoanalitica di Freud. E soprattutto opera che non pubblicò, proprio perché accortosi che la neurofisiologia non era in grado di spiegare lo psichismo.
Con i recenti progressi delle neuroscienze, il dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze ha avuto un nuovo impulso. È addirittura nata una nuova disciplina, la neuropsicoanalisi di cui Mark Solms è un importante esponente. Diversi neuroscienziati hanno contribuito al suo sviluppo, tra i quali Antònio Damasio ed Eric Kandel. Si può considerare che “la neuropsicoanalisi è un matrimonio tra neuroscienze e psicoanalisi” perché “integra queste due discipline per studiare in modo equilibrato e uguale la mente umana.” [5] Lo scopo della neuropsicoanalisi è di uscire dal dualismo freudiano. Si tratta di un’ottima iniziativa che consentirebbe – a lungo termine, però! – di concepire e descrivere l’essere umano come un’entità psicobiologia. Questo sarebbe, tra l’altro, molto utile per capire meglio il nostro funzionamento psicosomatico: “La psiche e il corpo appaiono così totalmente interconnessi che si finisce per sperare di potere, un giorno, superare le distinzioni concettuali che la scienza ci spinge a stabilire. Penseremo, allora, l’essere umano come un’unità psiche-corpo. Per il momento, accontentiamoci di sapere che lo psichico e il biologico gestiscono insieme il nostro essere.” [6]
Insomma, i tentativi attuali di unire neuroscienze e psicoanalisi sono molto interessanti per il futuro, però una tale unione sembra ancora utopistica. La neuropsicoanalisi mi sembra quindi di scarsa utilità per la prassi psicoanalitica d’oggi. Le neuroscienze e la psicoanalisi, non solo hanno metodologie diverse, ma non condividono l’oggetto del singolo approccio.
Come ben spiega Sacks: «La neuropsicologia, come la neurologia classica, si propone di essere del tutto obiettiva, e il suo grande potere, i suoi progressi, vengono esclusivamente da questo. Tuttavia una creatura vivente, e in particolare un essere umano è primariamente ed in ultima analisi… un soggetto, non un oggetto. È precisamente il soggetto, l'”io” vivente, che è escluso dalla neurologia». [7] Fortunatamente per gli psicoanalisti, è ancora lontana la realizzazione del sogno di sostituire le spiegazioni psicoanalitiche con dati neurofisiologici. E soprattutto quello di rendere obsolete le cure psicologiche. Cercherò di far vedere, attraverso il tema della dipendenza dai social network, perché abbiamo bisogno di una scienza dello psichismo per capire un soggetto e i suoi disturbi.
Facebook e gli altri social media sono dei formidabili mezzi di comunicazione e di contatto virtuale. È però risaputo che le persone predisposte rischiano di diventarne dipendenti. Se cadono in tale dipendenza, queste persone passano ore davanti allo schermo del cellulare o del tablet e non possono fare a meno di leggere i messaggi appena arrivano, spesso anche di notte. A volte i loro rapporti familiari e sociali ne sono gravemente perturbati. Non è raro che la loro vita di relazione sia ridotta a questi rapporti virtuali, spesso scanditi da diversi selfies. Sono anche conosciutissime le conseguenze cliniche della dipendenza dai social network: messa in pericolo del rapporto di coppia, isolamento, disturbi del sonno, disturbi alimentari, fallimento scolastico o professionale, fobie sociali, etc. … In altre parole, la dipendenza dai social network può avere conseguenze devastanti, come l’alcoolismo o la tossicodipendenza.
Con questo, arrivo a un possibile malinteso tra il neuroscienziato e lo psicoanalista. Entrambi usano la parola “dipendenza”, ma parlano della stessa cosa? Il primo studia l’effetto di sostanze su reti di neuroni, il secondo si occupa di meccanismi psichici complessi e li descrive attraverso una modellistica meramente psicologica.
Per entrare nel fulcro del mio argomento, ecco una breve sintesi di un caso clinico.
Elvira è una donna di 44 anni. Si rivolge al medico di famiglia per un disturbo del sonno ed un esaurimento nervoso. Il professionista ha diagnosticato una depressione e prescrive un farmaco antidepressivo ed un ansiolitico. Il trattamento non funziona e il medico indirizza la paziente dallo specialista.
In questa nuova situazione, Elvira ha tutto il tempo necessario per raccontare la sua storia. Viene fuori tra l’altro che, a vent’anni, si era innamorata follemente di un uomo maturo, sposato. Hanno convissuto felici, avendo subito un figlio. Un giorno, però, egli le dice che sua moglie ha tentato il suicidio ed è ricoverata. Decide quindi di ritornare a vivere con lei. Elvira riversa il suo affetto sul figlio e sviluppa una dipendenza affettiva nei suoi confronti.
A questo punto vorrei fare un piccolo commento. Occupandosi solo di molecole e di circuiti cerebrali, come si potrebbero evidenziare le cause di una tale dipendenza e capire il suo ruolo nell’economia psichica del soggetto? Vedremo più in là i limiti delle neuroscienze nel capire la dimensione soggettiva della persona.
Torniamo alla vita di Elvira. Durante le vacanze estive in cui il figlio era presso suo padre, ella comincia a passare molto tempo su internet. Naviga in particolare sui social media, partecipando a diversi gruppi di discussione. Tornato dalle vacanze, il figlio le sembra cambiato, le pare che la stia evitando, perché passa il suo tempo fuori di casa o rinchiuso nella sua camera. Elvira vive male questa nuova situazione e l’unica cosa che la calma è chattare sui social media. Poco a poco, quest’attività occupa tutto il suo tempo libero. Quando guarda la televisione, consulta in continuazione il cellulare o il tablet. Non li spegne più durante la notte.
Non frequenta quasi più nessuno, salvo in modo virtuale, chiacchierando con familiari e amiche attraverso il social network. Al lavoro, Elvira ha ricevuto una nota di demerito perché è stata sorpresa più volte connessa con il cellulare.
Se Elvira si sottomettesse a diversi esami d’imaging cerebrale, si potrebbe certamente visualizzare che il suo networking attiva neuroni dopaminergici. Si potrebbero anche evidenziare perturbazioni al livello dell’amigdalia e del nucleo accumbens del cervello, che sono delle zone coinvolte nell’uso compulsivo. Se Elvira fosse costretta a un’astinenza, si noterebbe un’attività anomala della corteccia frontale e prefrontale, in particolare del girus cingolare anteriore, perché si tratta di zone coinvolte nelle emozioni negative e nella tensione mentale.
Bene. Tali dati neurofisiologici sarebbero interessanti per la ricerca. Però sarebbero d’aiuto a Elvira? No, almeno sul piano psicologico. Certo, le ricerche neurofisiologiche servono a sviluppare farmaci. Mi sembra però che gli psicoanalisti abbiano meglio da offrire che la prescrizione di psicofarmaci. È quel che vedremo nella seconda parte.
© Daniel Lysek
Note:
[1] S. Freud (1915), L’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, 1976, p. 57.
[2] Naccache L., Le nouvel inconscient. Freud, Christophe Colomb des neurosciences, Paris, Odile Jacob, 2006.
[3] F. Ansermet & P. Magistretti, A chacun son cerveau. Plasticité neuronale et inconscient, Odile Jacob, 2004. Trad. it. : A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, Bollati Boringhieri, 2008.
[4] S. Freud (1895), Progetto di una psicologia, Opere, vol. 2, Boringhieri, 1968.
5] Wikipedia, art. Neuropsychoanalysis. https://en.wikipedia.org/wiki/Neuropsychoanalysis (trad DL).
[6] D. Lysek, Le parole del corpo. Nuovi orizzonti della psicosomatica, L’Harmattan Italia, 2016, p. 90.
[7] O. Sacks, Understanding, in A Leg to Stand On, Simon and Schuster, 1998, p. 177.
II Dott. Daniel Lysek lavora a Peseux (Neuchâtel, Svizzera) come micropsicoanalista e psicoterapeuta.
Nato a La Chaux-de-Fonds (Svizzera) nel 1950, si è laureato in medicina nel 1976.
Ha lavorato 10 anni nel Centro micropsicoanalitico del Dott. Silvio Fanti a Couvet, partecipando all’elaborazione teorica della micropsicoanalisi e diventando anche co-autore del Dizionario pratico della psicoanalisi e della micropsicoanalisi (Borla, 1984).
Dal 1985 è analista didatta della Società Internazionale di Micropsicoanalisi di cui è stato presidente dal 1987 al 1991.
Membro fondatore dell’Istituto Svizzero di Micropsicoanalisi, ne è il direttore dal 1999.
Ha partecipato, in qualità di relatore, a numerosi congressi internazionali.
È autore di molte pubblicazioni micropsicoanalitiche, tra cui un libro scritto con la Dott.ssa Daniela Gariglio, Creatività benessere. Movimenti creativi in analisi (Armando Editore, 2007). È curatore di un libro di psicosomatica, Le parole del corpo. Nuovi orizzonti della psicosomatica (L’Harmattan Italia, 2016).