(Estratto dell’intervento tenuto al congresso “L’acqua tra mente e corpo” coordinato dal Dott. Matteo Allone, Messina, 29 marzo 2008)

Queste poche e, in apparenza, scarsamente omogenee riflessioni che presento in questa simpatica mattinata, si basano specialmente su ricordi personali riguardanti due esperienze, diciamo, di movimento. La prima rispetto ad un percorso in ferrovia e la seconda durante una passeggiata a piedi in un bosco ricco di reperti preistorici lungo un fiume di montagna.
Naturalmente non si tratta solamente di due gite, ma di una metafora in cui i pensieri e le associazioni vengono paragonate a delle quantità di acqua che compiono i propri percorsi.
La mente umana deve districarsi in questi percorsi in modo di inventare le soluzioni ai problemi che, spontaneamente, a poco a poco si presentano.
In queste riflessioni io mi riferisco, metaforicamente, ai problemi che riguardano la posizione del padre nella nascita dei bambini.
Le due gite sono però veramente esistite e su entrambe faccio qualche riflessione; inizio dal percorso in ferrovia.
Anni or sono, tornando da un breve viaggio, osservavo i movimenti delle gocce di pioggia sul finestrino del treno.
A poco a poco la mia attenzione fu veramente catturata e mi accorsi che stavo facendo delle previsioni sugli scontri tra gocce. Scommettevo con me stesso sui percorsi dell’acqua in forma di gocce: un gioco che mi appassionava e stimolava la mia fantasia.
L’abitudine all’associazione, derivata dalla psicoanalisi, mi aiutò a produrre un processo di rievocazione involontario (ma coerente) che riportò a galla molti momenti della mia infanzia. Mi vedevo, nell’ingresso dell’appartamento in cui vivevo da bambino, che guardavo verso una finestra rettangolare che si affacciava verso un cortile in cui sovente osservavo un traffico di botti che venivano lavate. Erano giornate di pioggia e mi rendevo conto che già a quell’epoca il movimento delle gocce d’acqua mi interessava più di quello delle botti.
Mentre producevo queste associazioni mi cadde nella mente uno di quei pensieri che Freud chiama frei Einfall (idea spontanea) che in apparenza non sono coerenti con il resto del pensiero ma che se opportunamente studiate rivelano i loro segreti. Guardando quelle gocce che si muovevano e si scontravano pensai che la struttura degli spermatozoi è come quella di ogni altro elemento immerso in un liquido sottoposto a delle accelerazioni e a cambiamenti di direzione; poi mi si presentò il pensiero che il sogno è la manifestazione della pulsione, cioè l’aspetto motorio dell’energia, e per questo è un prodotto dell’Es che si struttura nell’inconscio.

Pensai che tutti i nostri sogni sono come le gocce sul vetro, diverse nella grandezza e nella forma, a seconda della velocità del mezzo, ma simili nella qualità delle componenti.
A quel punto mi resi conto che avevo stabilito un’equazione analogica tra le gocce d’acqua e il movimento degli spermatozoi e che quindi il contenuto latente del mio pensiero doveva aver a che fare con i misteri che la produzione dei nuovi bambini ha per gli altri bambini, che poi, amplificato è il problema dell’origine dell’uomo.
Evidentemente viene un momento in cui le spiegazioni infantili più o meno magiche, sulla generazione spontanea (per mio figlio a 4 anni i pesci erano prodotti dal fiume, i bambini dalla casa, etc.), non bastano più e i piccoli cominciano a porsi i problemi circa la funzione della madre e, più tardi, del padre.
D’altra parte uno dei principali argomenti di ricerca a cui mi ero dedicato per anni era lo studio, micropsicoanalitico, delle relazioni tra le difese materne e quelle fetali. Avevo stabilito un’analogia tra la dinamica dei meccanismi immunitari durante la gestazione ed i loro riflessi psichici. Avevo studiato molto il sogno nel suo duplice aspetto di sogni prodotti dalle mamme nei mesi di gestazione e di quelli riflessi, anche molti anni dopo nei figli che ne avevano conservato le tracce e che le riattivavano nei momenti difficili della vita.
Insomma mi trovavo immerso in una quantità di pensieri che crescevano e che rendevano il mio percorso mentale faticoso.
Mi apparve alla mente un’altra esperienza, appunto quella della passeggiata nel bosco alla ricerca di reperti preistorici e specialmente di un Dolmen situato su una piccola altura appena sovrastante il fiume.
Alla destra del Dolmen (rispetto all’ingresso) era naturalmente situata una roccia liscia su cui i nostri antenati preistorici avevano inciso una figura grande, a canaletto, che a prima vista sembrava destinata a raccogliere le gocce di pioggia e a canalizzarle. Ma forse è meglio che mi soffermi un poco sull’argomento e che racconti i fatti.

Qualche anno fa, decisi di passare l’estate a Piampaludo, un bell’insediamento della Liguria interna, nella regione di Sassello (Sv), a circa 900 M. sul livello del mare.
Il monte Beigua con i suoi 1300 m. lo domina e fa da riferimento centrale agli altri vicini, per esempio l’Ermetta. E’ una regione folta di boschi, solcata da fiumi, torrenti e torrentelli che partendo dalle sorgenti più alte corrono, dalla parte del mare verso il Teiro ed il Sansobbia, dalla parte del Piemonte invece sfociano nell’Orba che va in direzione di Ovada.
Piampaludo oltre che di boschi e fiumi, è ricco di meravigliosi massi, pietre, rocce, ed altre interessantissime formazioni minerali. E, cosa per me più interessante, è stato certamente un insediamento di popolazioni preistoriche e protostoriche che hanno lasciato le tracce incise della loro permanenza.
Avevo consultato un poco di letteratura, specialmente “Le incisioni rupestri nell’area del Monte Beigua e nell’Alta Valle dell’Orba” di Biancangela Pizzorno Brusarosco (Comunità Montana del Giovo, 1990), e la mia attenzione si era indirizzata specialmente su tre obiettivi di ricerca: il cosiddetto Dolmen, la Pietra scritta (Ciappa Scricia) e, la Grande Roccia con la grossa coppella raggiata o girasole (op. cit. fig. 56)
Le indicazioni dei libri sono (penso volutamente e a ragione) vaghe e i residenti si interessano poco, almeno in apparenza, di questi monumenti e, se richiesti, danno indicazioni ricavate dalla memoria della loro infanzia e adolescenza, quando andando al pascolo li avevano visti e, sulla “Ciappa scricia”, avevano inciso i loro nomi. Le indicazioni geografiche sono ben più generiche di quelle vaghe dei libri. Sono del tipo: “è quel sentiero che va nel bosco dopo il secondo ponte della strada per andare a Prato Rotondo”, oppure “è nella zona della ca’ del Ce”, oppure “si va sul Beigua e poi dalla croce si scende verso il fiume”. Le raffigurazioni, dai vecchi del luogo, venivano (come quelle del monte Bego) attribuite ai “Saraceni” però con molte riserve; si propendeva piuttosto a giuochi di pastori del luogo.
Comunque se si cerca con pazienza si trova tutto anche “l’ago nel pagliaio”, figuriamoci queste grandi pietre.

Il Dolmen, con l’aiuto di mia moglie Constance, da buona inglese anch’essa interessata alle civiltà delle grandi pietre incise, lo trovai per primo.
Devo dire che l’impressione fu profonda, non tanto per la ricchezza delle incisioni che di fatto superavano di gran lunga ciò che si può vedere nei libri, ma per l’atmosfera del luogo. Un luogo, almeno per me, permeato di sacralità umana, rappresentata in quel modo sincretico, tipico di quelle epoche, in cui tutti i temi sono affrontati contemporaneamente e espressi in modo sovradeterminato come nei sogni.
Non si pensa mai che colui che incide (il pastore del neolitico) è un intellettuale dei suoi tempi: dal nostro punto di vista, analfabeta, ma dal suo, no. Egli è un conoscitore dei segni che rappresentano certi temi e si serve di essi per “scrivere”. Quei segni che E. Anati definisce pittogrammi, ideogrammi e psicogrammi, attraverso i quali si è scritta la “storia non scritta”, si è incisa una memoria, oggi sommersa, ma richiamabile tramite le tecniche di confronto che ricostruiscono una grammatica ed una sintassi comune a tutti gli esseri umani e la rivestono di affetti tramite l’induzione associativa messa in moto dalle variabili situazionali (per esempio io mi sono seduto, solo, nel Dolmen, e sono rimasto (più volte) a meditare e “sognare”. E poi alla notte ho sognato.
Svilupperò l’argomento “dolmen”, un’altra volta, per ora affronto il tema che dà il titolo a questi ricordi: l’incisione della “strada del fiume” (che inserisco in “I percorsi dell’acqua”).
Nella zona del Dolmen reperimmo altre grosse pietre “scritte”. La nostra attenzione fu attirata da una che portava profondamente incisa, in parte scolpita, una figura vagamente antropomorfica che aveva la funzione di raccogliere le acque che scorrevano sulla roccia (posta in discesa) per convogliarle in una linea di scolo. Sembrava un fiume in miniatura inciso in forma umana. Una specie di dea Nut che “orina” il Nilo. Intuitivamente pensai al fiume che scorre ad un centinaio di metri dall’incisione.
L’anno successivo, mi recai sul posto con un mio amico, Franco Scelfo, Silvana la sua consorte accompagnata da Pussy (il suo “storico” barboncino), e naturalmente Constance.
Franco, che è un profondo conoscitore della zona, specialmente dei fiumi, infatti è un pescatore di trote, appena vide l’incisione di cui sto parlando, esclamò: ma questa è la mappa del fiume, c’è anche il lago del Cornello con il laghetto superiore, più piccolo. Era profondamente convinto che l’incisione operata sulla “Pietra del canalino” (op. cit. fig. 56), fosse la mappa dei fiumi che dal lago del Cornello scende verso l’Orba, e passando vicino al Dolmen punta verso la Grande Roccia.
In definitiva se immaginiamo quel periodo in cui immense foreste coprivano, senza soluzione di continuità il territorio, l’unica strada praticabile che conduceva da un punto di riferimento all’altro, era il fiume. Una vera e propria idrovia anche se (forse) non navigabile. Un’ispezione in loco, che facemmo assieme confermò, per quanto possibile, l’ipotesi. Il lago del Cornello su cui scende il salto d’acqua che proviene dal laghetto superiore è il modello della riproduzione scolpita all’inizio della pietra del canalino, cioè quella scavata nella parte superiore della pietra, in cui si incanala l’acqua piovana proveniente dal bosco sovrastante. Il nostro antenato aveva riprodotto il fiume probabilmente servendosi di incavi scavati dalla pioggia nella roccia e ne aveva ricostruito una mappa (almeno di una parte) quasi completa.
La sintesi di questi racconti è che, io, per trovare la mia strada nello intersecarsi dei percorsi degli accadimenti della vita che si scontravano e si confondevano come le gocce d’acqua sul vetro, avevo dovuto ricorrere alle tracce lasciate in me dalle esperienze che avevo attraversato durante la mia vita intrauterina, l’infanzia e l’adolescenza che a loro volta ripercorrevano quelle degli antenati.
Credo che questo fenomeno sia possibile attraverso una mappa onirica che ho l’impressione sia la stessa che costituisce il tessuto delle nostre fantasie e dei nostri sogni notturni e diurni.
In base alle mie esperienze di micropsicoanalista e di essere umano penso che in codeste fantasie per lo più preconscie, tramite un lavoro associativo, perveniamo a costituire i centri di interesse per le nostre attività creative che ci dirigono a quelle scoperte attraverso le quali ci rendiamo la vita meno pesante.
Mi riferisco per esempio, all’argomento di cui ho parlato riflettendo sulle associazioni riguardanti gli spermatozoi e la soluzione degli interrogativi concernenti la funzione paterna nel processo di riproduzione.
Questo è uno degli argomenti classici che hanno stimolato la creatività umana a tutti i livelli.
Iniziano i bambini a porsi il problema ma anche l’umanità se lo è posto e non l’ha risolto subito e anche noi “contemporanei” continuiamo a porcelo e a fantasticarci sopra. Solo che le nostre fantasie sono progetti di ricerca sviluppati negli istituti specialistici sempre che non si tenga conto delle loro motivazioni inconscie. Per esempio, una fecondazione in vitro e una gestazione in un contenitore non umano che realizza una fantasia di onnipotenza simile a quella di cui parlerò in seguito riferendomi al racconto di Marie Bonaparte.

Per quanto riguarda i bambini, tra i molti esempi che potrei scegliere penso che il più “divertente” potrebbe essere, appunto, quello che ci è offerto dalla genialità di Marie Bonaparte nel primo dei suoi quattro volumi intitolati, Cinq cahiers ecrit par une petite fille entre sept ans et demi et dix ans et leurs commentaires.

La poesia di cui parlo, scritta da Marie in inglese e francese, a circa sette anni, era intitolata nella versione inglese “The waiting drop” e in quella francese “La goutte qui attend”.
Ne faccio una rapida traduzione in italiano, in modo da poterla commentare (lascio la punteggiatura originale cioè quella di una bambina).
Il concetto è che il segreto dell’uomo è quello di possedere una bottiglia in cui risiede una “goccia che aspetta”; quando la bottiglia esplode la goccia esce e con essa l’uomo può fare tutto, anche creare la vita.
Ecco la mia traduzione italiana della favoletta in cui si parla de:

La goccia che aspetta

C’era una volta un uomo il cui nome era: l’UOMO CHE SCOPPIA: come segreto aveva una bottiglia e in questa bottiglia c’era: la GOCCIA CHE ASPETTA: e lui poteva desiderare tutto! Tutto! Ciò che voleva con questa: GOCCIA CHE ASPETTA: un giorno il TITEL venne e fece dei segni per cambiarlo in un toro. e l’UOMO CHE SCOPPIA buttò dell’acqua nella bottiglia e ne prese una goccia e la buttò in faccia a TITELI. scomparve e l’UOMO CHE SCOPPIA si mise in viaggio per cambiare in un toro. TITELI. È un brav’uomo colui che scoppia! Sul suo cammino incontrò Mr. BULLS e Mr. PRAT le mogli dei quali stavano facendo dei segnali affinché titeli riuscisse e i signori stavano mormorando delle parole perché PRAT potesse riuscire e allora quello CHE SCOPPIA andò in Germania per vedere se vedeva TITELI e là vide la cambiò e gli uomini furono felici.

La Bonaparte commenta con le seguenti parole: “Ed ecco, dopo la spiegazione dei misteri della maternità, un tentativo di spiegazione del ruolo del padre nella generazione. «C’era una volta un uomo il cui nome era il Bisting Man, cioè il Bursting Man», pronunciato Busting o Bisting come doveva fare la signorina Reichenbach, che in francese significa l’Uomo Che Scoppia.”

Questo “uomo esplosivo” aveva come segreto una bottiglia, e in questa bottiglia c’era “la goccia che aspetta”. Con questa “goccia che aspetta” poteva desiderare tutto ciò che voleva.
Marie Bonaparte sottolinea l’aspetto simbolico del linguaggio non difficile da decifrare. L’orgasmo, dice la Bonaparte, è universalmente assimilato ad una esplosione (nel tedesco popolare, platzen). L’Uomo Che Scoppia significa l’uomo che esplode nell’orgasmo.
Il segreto magico di quest’uomo è proprio quello di avere una bottiglia (il pene) nella quale si trova così, molto realisticamente, una goccia che aspetta (la goccia di sperma che aspetta l’istante finale dell’eiaculazione). Con questa bottiglia magica, strumento della sua potenza virile, della forza fecondatrice, creatrice, l’uomo, in effetti, può fare tutto! Tutto! Ciò che vuole, poiché riesce a fare tutto quello che l’industria umana non sa realizzare, cioè con una sola cellula può creare la vita.

Per chi ascolta è utile sapere che Titeli era la balia di Marie e che il padrone della bottiglia (pene) era Pascal, un fratellastro illegittimo del padre (quindi uno zio) che si occupava di dirigere le scuderie del principe Bonaparte. Alla sera tardi Pascal andava a visitare Titeli e, i due, nudi, si scambiavano delle effusioni, anche orali (fellatio), che permettevano alla piccolissima Marie di memorizzare bene lo spettacolo e di costruire le basi per la teoria dell’Uomo che Scoppia e della Goccia che Aspetta.
Vorrei far notare che anche in questo caso si trattava di un percorso di un liquido che, negli stadi successivi, venne riconosciuto nell’urina per poi essere riportato al suo significato primario di spermatozoo che aspetta, immerso nel liquido spermatico di poter fare il suo percorso e di uscire.
Per fortuna nostra e della scienza psicologica Marie Bonaparte ebbe l’idea di conservare i suoi documenti infantili e di pubblicarli. E io, ora, per chi ascolta, li posso rievocare.

© Nicola Peluffo