Leggo su L’Espresso di questa settimana che un medico norvegese ha pubblicato sulla prestigiosa rivista “The Lancet” uno studio interamente falsificato. Voleva dimostrare che alcuni comuni antinfiammatori erano efficaci nella terapia del cancro orale così si è messo davanti al computer ed ha semplicemente inventato una casistica di 900 pazienti.

Smascherato per caso da una lettrice dell’Istituto Norvegese di Salute pubblica, che si era resa conto che i dati citati come provenienti da quello stesso Istituto non potevano essere autentici, il “ricercatore” ha poi ammesso di aver falsificato altri due studi nel 2004 e 2005. Nel frattempo comunque “il National Cancer Institute” aveva disposto un finanziamento di 8,7 milioni di euro. E chissà quanto gli avrebbero dato le case farmaceutiche. La notizia si commenta da sè, tuttavia vorrei fare alcune considerazioni che vanno oltre la diffusa disonestà che specula sulla salute della gente e che si estende anche ai mitici Paesi Scandinavi (dove comunque pare che per lo meno se ne accorgano!).
La rivista “The Lancet” è ancora indiscutibilmente il più autorevole punto di riferimento per i ricercatori di tutto il mondo. Pubblicare sul Lancet è l’aspirazione massima di chi lavora in campo scientifico e i criteri di selezione sono accuratamente severi. Ma cosa dobbiamo pensare se sfuggono fatti come questo? Gran parte dei lavori scientifici che leggiamo si compiacciono diffusamente di casistiche numerose, dell’organizzazione grafica di pochi dati e di succinti commenti pieni di condizionali. E le scoperte si susseguono con rapidità vorticosa accertando, approfondendo o, talvolta smentendo, osservazioni fatte poco tempo prima. Un lavoro di due anni fa è “ormai datato”.
Invece nel nostro campo, quello della psicoanalisi, l’osservazione è prolungata nel tempo, la casistica necessariamente limitata, la verifica longitudinale richiede anni. Come scrisse Kandel, un’integrazione dei metodi sembra necessaria.

© Gioia Marzi