Spero che questo sia il mio ultimo contributo sulle conseguenze psichiche del Coronavirus: vorrà dire che l’emergenza si sarà ridimensionata e che la malattia, pur notevolmente pericolosa (mortalità assoluta in Italia rispetto alla popolazione dello 0,05%) si indirizzerà verso un decorso epidemiologico simile alle altre malattie del gruppo coronavirus che hanno mostrato un lento ma graduale contenimento. Intanto vorrei ringraziare le migliaia di lettori che hanno condiviso i miei precedenti lavori, alcuni solo delle piccole pillole di riflessione.

Vorrei fare intanto una premessa di metodo. Abbiamo tutti assistito in questo difficile periodo al carosello disinvolto di affermazioni dei vari esperti che venivano smentite nell’arco di ore o giorni dalla realtà. Alcune di diniego e negazione del problema (mentre invece l’epidemia di covid-19 è una cosa seria, i morti non si inventano, le bare non sono certamente vuote) altre totalmente catastrofiste “E’ la fine del mondo così come lo abbiamo conosciuto, nulla sarà più come prima, entriamo in una nuova epoca” (sono le affermazioni di quelli che ignorano la storia, la continuità, vivono in un oggi ipervalutato, non hanno più radici psichiche, chiusi in un narcisismo virtuale facilmente manipolabile e manipolatorio). Oltre quaranta anni trascorsi ad ascoltare persone ed ad assistere alla caduta delle proiezioni e delle difese psichiche mi hanno permesso di non essere facile preda della suggestione psichica. Di poter guardare gli eventi con il minimo coinvolgimento emotivo. Condivido con voi alcune riflessioni

La nostalgia del nido

Una paziente dice: “Ho una profonda nostalgia della quarantena: chiusi in casa, senza vedere nessuno, senza litigare con nessuno, senza tensione, Certo rischiava di diventare una bara…” In un precedente articolo avevo messo in evidenza la possibilità di una possibile regressione a stadi di organizzazione psichica precedenti, come la fusionalità intrauterina. Ora la paziente sfrutta l’ordine esterno “stai a casa” per rinforzare la struttura narcisistica della sua personalità: l’eliminazione dell’interazione con l’Altro, dunque del confronto con la realtà, le permette di salvaguardare l’immagine ideale che ha di sé: la quarantena la fa stare tranquilla

Sappiamo dalle statistiche che tante persone alla parziale riapertura hanno preferito rimanere nel nido trincerandosi dietro la razionalizzazione di voler evitare il  contagio, quando questo era facilmente evitabile rispettando le distanze raccomandate dall’OMS: le persone non sono lanciafiamme ed i virus non sono radiazioni. Si rinuncia ad abitare il mondo, si preferisce restare nel guscio, in questo modo consegniamo il nostro mondo al virus. La battaglia è persa.

Credo che ognuno di noi, facendo uno sforzo di memoria. possa ricordare le difficoltà che avevamo da bambini, ad allontanarci da casa, una certa agorafobia infantile è fisiologica, abbiamo avuto addirittura difficoltà ad abituarci al cibo esterno, rimanendo attaccati per anni alla “pappa di mammina”. Questa è quella che gli psicoanalisti chiamano “regressione infantile”.

Il complottismo e l’elaborazione paranoide

Ha avuto, ahimè, una certa fortuna, soprattutto tra i giovani, una sorta di negazione complottistica: “l’epidemia è un’invenzione dei poteri forti”, muoiono solo i vecchi” (certo, l’età media dei pazienti deceduti e positivi al SARS-CoV-2 è di 80 anni, ma abbiamo avuto, nel momento in cui scrivo, in Italia, anche 1100 morti nella fascia di età tra i 50 e i 59 anni, cioè lo  0,0018 in rapporto alla popolazione globale) (fonte Epicentro: L’epidemiologia per la sanità pubblica Istituto Superiore di Sanità). Per un certo periodo ha avuto un certo credito l’ipotesi, sostenuta anche da alcuni eminenti studiosi, primo fra tutti il Premio Nobel Luc Montagnier, che il virus fosse un prodotto di laboratorio: in queste pagine la Dott.ssa Onorati si è peritata di dimostrare l’impossibilità di tale assunto in questo pregevole lavoro: “Coronavirus, Luc Montagnier e metodo scientifico”.

La costruzione del Persecutore (nel ruolo ha avuto una certa fortuna il fondatore della Microsoft, Bill Gates) ha il risultato di spostare l’attenzione su un artefice fantasmatico della situazione traumatica con la finalità inconscia di eliminare la percezione angosciante. Ad esempio quella del più alto indice di diffusione di questa malattia rispetto all’influenza stagionale: se le misure di contenimento non fossero state intraprese avremmo certamente avuto una mortalità maggiore (tamponi di massa e test seriologici per l’individuazione precoce dei cluster sembrano a me la soluzione più avanzata poiché hanno indubbiamente impattato meno sull’economia degli stati che l’hanno adottata, vedi la Germania). Come ricordava Daniel Lysek in un articolo pubblicato su questa stessa Rivista “Su un altro terreno, anch’esso predisposto, succede che l’angoscia provochi delle reazioni paranoidi, quindi vicine alla psicosi. Allora si proietta irrazionalmente la figura inconscia del cattivo su un oggetto esterno, non perché questo sia oggettivamente pericoloso ma solo perché ha la sfortuna di provocare una risonanza con un cattivo oggetto rimosso. Altrimenti detto, il rischio sanitario può provocare una regressione patologica a un modo arcaico, anacronistico, di rapporto con l’altro”. 

Ricordiamo tutti credo, anzi penso che quelle immagini diventeranno iconiche e storiche, le scene ridicole dell’inseguimento del runner con i droni sulla spiaggia, un inseguimento degno del miglior Pablo Escobar, eletto a capro espiatorio da una gran parte del popolo dei social media. Non a caso l’etimologia di Farmaco è del tutto simile a quella dei pharmakoì, i capri espiatori dell’antica Grecia che venivano espulsi, poi lapidati ed uccisi in occasioni eccezionali, come ad esempio le pandemie, uno straordinario passaggio dall’animismo alla scienza: il fine era lo stesso, isolare ed espellere la causa dell’epidemia (vedi il mio precedente articolo)

Toh la morte, questa sconosciuta!

L’emergenza coronavirus ha fatto riemergere nell’immaginario collettivo la rappresentazione della morte. Viviamo in una società in cui la morte era stata bandita: i vecchi ora muoiono in ospedale, spesso nelle terapie intensive, lontano dagli sguardi dei familiari, che al massimo li salutano prima del probabile exitus: medici ed infermieri sono diventati gli inconsapevoli artefici di un ruolo indesiderato: i sacerdoti della morte. Prima o poi bisognerà pensare ad istituire un servizio di psicoterapia integrato nella professione che li sollevi da questo peso non richiesto.

Fino a 10-20 anni fa quando il medico capiva che non vi erano più speranze in un mutamento della situazione lo comunicava alla famiglia e spessissimo questa chiedeva ed otteneva le dimissioni del malato perché “morisse tra le mura di casa”, circondato dalla familiare presenza dei suoi congiunti. Poi, anche per la folle medicina difensiva a cui i sanitari sono costretti, la morte è stata medicalizzata, si muore intubati, in una desolante solitudine. L’essere umano ha voluto espellere dalla sua storia la fine, la morte, in una esaltazione del delirio di onnipotenza dell’eternità.

Quando, al parziale scioglimento del lockdown, ho ripreso il lavoro mi sono praticamente solo occupato di ridimensionare le enormi angosce di morte che si erano riattivate nei miei pazienti.
Per alcuni il coronavirus è stata una benedizione: mandando in frantumi gli schermi protettivi narcisistici che li separavano dall’idea della morte, li ha costretti ad elaborarne l’umana presenza, permettendo l’elaborazione di un passaggio diniegato fin dalla prima infanzia. Mi direte che le immagini delle TV erano piene di morte anche prima del coronavirus, ma era sempre la “morte dell’altro”, guerre lontane, emergenze di altri popoli, crimini di nicchia. Nei numerosi racconti dei sopravvissuti all’epidemia, quelli che sono “risorti” dalle rianimazioni emerge una costante: l’angoscia della visione delle morti degli altri: molti imploravano un paravento per non dover vedere quelle scene.

Elaboriamo l’angoscia quasi sempre per proiezione, come ad esempio quel tossicodipendente grave da eroina che smise non perché aveva compreso che il suo uso massivo lo stava rapidamente uccidendo, ma perché aveva finalmente visto la morte sul viso di un amico immerso nel deliquio della dose. Purtroppo non passerà molto tempo prima che, ad emergenza conclusa (perché è sicuro che tutto questo finirà in termini ragionevoli) la morte venga espulsa nuovamente fuori dalla percezione quotidiana. Totò amava riproporre una battuta: “Ma vi siete accorti che non muoiono sempre gli stessi?

Una analizzata in una seduta post-lockdown parla dell’uso, sempre più frequente, di portare giocattoli o le pietanze preferite nelle ricorrenze ai propri defunti: il diniego totale della morte. Prima si portavano i fiori, spostando la percezione della corruzione della carne, della trasformazione irreversibile, sul vegetale che si corrompe. Ora si porta il cibo ai morti, che evidentemente morti non sono (i giovani ultimamente portano la birra preferita all’amico scomparso).

Gli appartenenti ad un ordine religioso, quello dei monaci trappisti (Ordo Cisterciensis Strictioris Observantiae), non a caso praticamente in scomparsa, avevano l’abitudine, incontrandosi, di salutarsi così: “Fratello, ricordati che devi morire”. Quanta saggezza.

La Quarantena ed il recupero di ritmi naturali


La quarantena ha avuto anche inevitabilmente dei risvolti positivi. Per millenni al tramonto del sole, a meno di non appartenere alla alta classe nobiliare, si andava a dormire. Il mantenimento di un normale ritmo sonno-veglia era assicurato dall’organizzazione sociale. Certamente al giorno d’oggi laptop e cellulari hanno preso il posto del sole illuminando le notti di molti di noi, soprattutto quelli in giovane età: è sempre più diffusa una sindrome borderline adolescenziale determinata dal binomio terribile insonnia/uso di stupefacenti.

Chissà se le famiglie avranno colto l’occasione di un confronto prima impossibile: i giovani ormai escono quando i genitori rincasano! Toh ma questi chi sono? ah già i miei familiari! Sono stati rispolverati per l’occasione riti millenari, come la cottura del pane in casa. In fondo, dal punto di vista dell’Es un tetto, il pane caldo, un partner a disposizione, la prole e la continuità sono l’essenziale. Molti avranno compreso in questa congiuntura quanto grande, potente ed artificiosa sia stata la spinta consumistica in questi decenni. I veri bisogni primari si contano sulla punta delle dita e possono essere facilmente soddisfatti.

Le ricadute sulla vita sessuo-affettiva

Molti pazienti riportano un notevole aumento di disfunzioni erettili: la permanente disponibilità dell’oggetto sessuale ha risvegliato in molti nevrotici un’ansia da prestazione prima mascherata dai sovrastanti impegni lavorativi e sociali. E la pemanenza rappresentazionale dell’Oggetto (il partner) ha reso più difficile il gioco delle fantasie e delle proiezioni che in fondo rendono più varia e più facile l’appetenza sessuale. Ora lei/lui era proprio lei/lui. Credo che le crisi coniugali che si sono aperte in quarantena non si contino; gli equilibri precari, spesso organizzati dall’infedeltà coniugale, sono saltati.

Al contrario molte persone, li definiremo i normo-nevrotici, hanno osservato una ripresa del desiderio di fare sesso: è la normale risposta dell’Es alla presenza della morte. Per rebound si attiva la spinta sessuale, che, non dimentichiamolo, è al servizio primario della pulsione di eternamento del genoma. Si percepisce la morte, si crea la vita. Sarà interessante vedere, nelle statistiche dei prossimi mesi, se nel periodo di quarantena vi sarà stata una impennata di rapporti fecondanti. L’eterno gioco dinamico della pulsione di morte-di vita.

Buona vita!
Chi vuole mi scriva su [email protected]

©  Quirino Zangrilli