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Lo psicoanalista, in ragione del suo lavoro, è in contatto continuo con la sofferenza umana e l’osservatorio privilegiato costituito dalle sedute individuali (tanto più profondo quanto più protratto è il tempo di seduta) gli consente di raccogliere ciò che di più intimo e vero alberga nell’animo umano. Nel corso di una interazione così profonda progressivamente le bugie, le manipolazioni, i camuffamenti, le razionalizzazioni cedono il passo ad associazioni mentali via via più sincere e vicine al dato realmente presente nella parte più ricca, energeticamente potente della nostra personalità: l’inconscio.

Se si potesse misurare la distanza tra ciò che effettivamente l’essere umano vive da un punto di vista psichico ed emozionale e ciò che racconta o crede di vivere, saremmo senz’altro costretti a ricorrere agli anni-luce. Uno dei problemi sociali che maggiormente è soggetto a fenomeni di massa di diniego, rimozione o deformazione è senz’altro quello della tossicodipendenza. Ed al contempo questa drammatica realtà trascina con sè un grande bagaglio di sofferenza per il tossicodipendente e per la sua famiglia.
In un articolo dedicato alla divulgazione non ci si può esimere da approssimazioni e da cesure espositive.

Innanzitutto vorrei ricordare una cosa elementare: al di là di una piccola percentuale di casi in cui nella condotta tossicomaniaca si reperisca l’assenza di una conflittualità psichica rilevante, il tossicodipendente è un malato come un altro: dovremmo dunque sforzarci di associarlo mentalmente a qualsiasi altro malato portatore di una affezione somatica grave potenzialmente mortale (il cardiopatico grave, il malato neoplastico, per esempio, verso i quali non proviamo difficoltà alcuna a nutrire spontanei ed intensi sentimenti di pietas). Questa affermazione che potrebbe essere ritenuta addirittura pleonastica tanto appare ovvia, in genere suscita vibranti dissensi proprio da parte dei tossicodipendenti, i quali, in ragione dello smisurato senso di onnipotenza che caratterizza la loro struttura di personalità ed impedisce di percepire il reale pericolo connesso con l’uso del farmaco, tendono ad ammantare, per razionalizzazione difensiva, l’intenso e coatto bisogno inconscio, con la rivendicazione di una vita diversa, eroica, protesa verso l’infinito, staccata con disprezzo dalle bassezze della quotidianità borghese. Ho ormai preso l’abitudine automatica di tirare un sospiro di sollievo quando ascolto un sincero “Dottore, mi aiuti” da parte del tossicodipendente. Il malato che richiede aiuto si situa già nella dimensione avanzata di colui che sta già tentando dentro di sé di arginare il male, ne percepisce la pericolosità, ed ha maturato quell’ovvia considerazione, innata nei soggetti immuni dall’appetenza alle droghe, che non vi può essere libertà alcuna in presenza del bisogno coatto. I secondi a dolersi di tale ovvia considerazione sono le persone costrette dalla propria paura ed aggressività inconscia ad eliminare totalmente qualsiasi pur lontana possibilità di comunanza tra sé e l’Altro, il Delinquente, il Deviante, un po’ come qualche decennio fa si faceva comunemente con i malati di mente.

Ma il tossicodipendente è un malato particolare: uno dei segni caratteristici della sua “malattia” si fonda sull’intensa appetenza psichica alla droga; è infatti ormai fuor di dubbio, per chi abbia una pur minima esperienza clinica, che la cosiddetta “sindrome da astinenza”, tanto drammatizzata in passato, dal punto di vista dei disturbi strettamente somatici non ha nulla di particolarmente imponente e preoccupante, è di pronta risoluzione, con presidi farmacologici addirittura banali. Il problema centrale è che nessuno finora è stato disposto a formulare l’ovvia domanda: ”Perché esiste questa appetenza psichica?”. La risposta, anche se può apparire sconcertante, è che questi soggetti hanno un reale bisogno di quella sostanza farmacologica socialmente denominata “droga”. Ne hanno bisogno perché placa transitoriamente l’intensa angoscia e l’intollerabile conflittualità interna che li agita. Se l’eroina non avesse presentato gli spiacevoli effetti collaterali che ben conosciamo ed il fenomeno della tachifilassi, cioè la necessità di aumentare progressivamente le dosi dovuta al rapido processo di intervenuta tolleranza, per sortire lo stesso effetto farmacologico, la sua diffusione sarebbe enorme e sarebbe considerata uno psicofarmaco come un altro. Perché non si considera mai che l’eroina, derivato semisintetico della morfina, è in fondo un potentissimo tranquillante sia per via della sua azione diretta (raramente, come d’altra parte tutti i tranquillanti, provoca disforia), che per il noto effetto flash di deconnessione con il proprio io che il tossicodipendente ricerca? Il tossicodipendente ricerca l’eroina come un malato terminale oncologico ricercherebbe qualsiasi presidio terapeutico possa calmare il suo dolore. E poco importa se la sofferenza è percepita a livello del soma o a livello psichico: sempre di sofferenza si tratta.

Ma la tossicodipendenza da oppiacei non può essere ritenuta una sindrome a sé stante: essa è un sintomo di una situazione di alta conflittualità psicobiologica. E non può esservi risoluzione alcuna senza un processo di presa di coscienza dei conflitti profondi che nutrono l’appetenza. In fondo il tossicodipendente, assumendo l’eroina non fa che operare un inconscio (e disastroso) tentativo di autoterapia che se da una parte gli consente comunque di vivere, dall’altra gli permette di mantenere inalterato il suo stato patologico di onnipotenza: ”Io non sono un malato di mente. Sono semplicemente diverso!”.

L’essere umano che per le caratteristiche del suo terreno psicobiologico finisce per sviluppare una tossicodipendenza, con l’alta pulsionalità di morte che lo contraddistingue (in termini usuali, la sua auto ed etero distruttività) è sempre esistito: nelle generazioni lontane partiva in guerra come volontario nei reparti d’assalto, negli anni cinquanta attaccava la sua vita alla ruota del caso nel corso di folli e spesso mortali raids in automobile o in motocicletta. Oppure, nella generazione che ci ha preceduto, sviluppava una sindrome alcolomaniaca. Il tossicodipendente attuale è particolarmente sfortunato: in primo luogo ha incontrato sul suo cammino delle molecole diaboliche, molto più aggressive e mortifere delle precedenti, in secondo luogo non può facilmente mascherare in modo socialmente accettabile il suo problema; infine l’illegalità del mercato lo rendono automaticamente un delinquente.

Uno dei discorsi francamente disarmante che spesso viene fatto, purtroppo anche da alcuni operatori, è quello delle responsabilità, un discorso che spesso alimenta all’interno delle famiglie uno stato di penosa conflittualità e nutre profondi e dolorosi sensi di colpa specialmente nei genitori. E’ questo un discorso che, con l’approfondita osservazione della situazione, alla lente d’ingrandimento costituita dall’indagine psicoanalitica, perde molta parte della sua fondatezza e acquisisce una certa relatività. Perchè, la storia conflittuale che alimenta la situazione di tossicodipendenza nel singolo membro della famiglia è spesso iniziata generazioni addietro, ha trovato in altri membri della famiglia altre modalità di rappresentazione (malattie somatiche gravi, fallimenti sentimentali o lavorativi, condotte sociali pericolose o devianti, ecc.) e solo nel momento attuale, lo stesso trauma transgenerazionale acquisisce le stigmate della tossicodipendenza. Spesso, servendosi di quella preziosa metodica utilizzata dalla scuola micropsicoanalitica che è lo studio genealogico, e che consiste in una meticolosa ricerca che si serve di fonti documentarie diverse, quali lettere, fotografie, archivi familiari, mappe delle case, ecc., il giovane tossicodipendente ha la possibilità di riconoscere, in tentativi che hanno interessato le generazioni che lo hanno preceduto, lo stesso terreno gravido di pulsione di morte che lo contraddistingue. Questa verifica di realtà, se viene condivisa dal gruppo familiare attuale, sarà fonte di grande sollievo, in primo luogo perché avere la percezione che si tratta di fatti traumatici che si ripetono in forme diverse, disinnesca la drammaticità artificiosa della penosa sensazione di estraneità ed incomprensibilità di ciò che sta accadendo e costituisce un primo riscontro di familiarità tra il giovane e la sua famiglia. La chiara percezione di avvenimenti traumatici che si succedono nel corso delle generazioni priva la tossicodipendenza di quel bruciante senso di irreparabilità, di spaventosa estraneità, di diabolicità che una volta, quando ero bambino, ammantava la rappresentazione popolare dei tumori maligni, una cosa che nemmeno si osava nominare.

Questo costituisce il primo importante passo: avere la consapevolezza che il caso di tossicodipendenza non è il primo avvenimento che, venendo a scuotere quella retroattiva idealizzazione di ogni Storia Familiare, giunge a tormentare la famiglia. Il giovane ha così modo di liberare le sue spalle dal grave fardello dell’alienità che lo fa sentire un mostro senza radici.
Se inizierà e porterà a termine una ricerca psicoanalitica, pian piano, insieme alla progressiva neutralizzazione della conflittualità inconscia che nutre l’appetenza per la droga, avrà modo di scoprire che la tormentosa ambivalenza che lo spinge a combattere contro i suoi genitori ed il mondo intero, è solo l’ennesima replica, che scrittura attori inconsapevoli, di un copione di rappresentazioni ed affetti che ha un’origine lontana e di cui, spesso, si sono persi i codici di espressione. Dare una voce a questo lontano, traumatico passato, è l’unico modo che abbiamo per renderlo energeticamente inerte. E in modo definitivo.

© Quirino Zangrilli

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