Sommario
Premessa
Tanti amici, tanti rapporti, poca solitudine. La relazione è semplice, chiara. Oggi viviamo nell’era di Internet, dei contatti veloci, delle comunicazioni sovrabbondanti e tutto dovrebbe far tendere alla semplice equazione: tanti amici, vita piena. Purtroppo la formula non è così lineare. Conosco persone che hanno migliaia di “amici” su face-book. Sono molto contente di tutti questi contatti, ma non sono felici, non sono neanche serene. Allora, la domanda potrebbe essere: perché? E poi, cosa spinge le persone a ingrandire sempre di più la rete dei loro contatti?
Forse una prima risposta è nella parola “contatti”. Esiste una differenza sostanziale tra contatti e relazioni. I contatti sono limitati nel tempo, si attivano e disattivano velocemente e sono evanescenti. Spesso non sono neanche una libera scelta. Sono condizionati da “meccanismi sociali misteriosi” che orientano e ci indirizzano a dispetto del nostro preteso “libero arbitrio”.
In realtà, tutto ciò non è nuovo. L’uomo, per sopravvivere, ha bisogno di relazioni sociali per conoscere e farsi riconoscere. Abbiamo bisogno di una relazione che avvicini e allo stesso tempo mitighi lo “stato” di solitudine che accompagna l’uomo per tutta la vita; ma i contatti non sono relazioni.
Nell’ineluttabilità di questo stato, comprendere la dimensione sociale della solitudine, almeno dal mio punto di vista, vuol dire interpretare alcuni dei meccanismi alla base del complesso sistema relazionale individuale e la loro interazione con la società. Quando ho cominciato a scrivere quest’articolo, ben sapevo che le dinamiche inconsce dell’individuo trovano spesso un completamento più ampio nel complesso sistema di relazione che muovono i gruppi e gli aggregati sociali più ampi. Avevo, invece, meno in mente quanto lo stesso sistema anima la rete e obbliga le persone al paradosso del: “Più contatti si hanno, più si è soli”.
In verità, se la solitudine è lo stato naturale dell’uomo, il problema non risiede nell’attribuirle un particolare significato, semmai è quello di comprenderne i meccanismi e le logiche che l’uomo utilizza per regolarne la vita quotidiana. Conoscere è un atto di consapevolezza, di Sensemaking, direbbero gli americani, per transitare dall’esperienza al significato e da questo all’apprendimento, nella speranza di un cambiamento rinnovatore.
E in questa direzione vorrei indirizzare il mio contributo.
Considerazioni generali sulla solitudine
Per uscire dagli stereotipi, la solitudine non è una malattia, non è neanche un esito. È essenzialmente uno stato, una condizione umana che in determinati momenti trova la propria forma espressiva in un’emozione.
Condizione imprescindibile per vivere il sentimento di solitudine è aver raggiunto un certo grado di maturità psichica. Quando, nel percorso evolutivo, l’altro è diventato un oggetto diverso da Sé, si percepisce la solitudine, si è soli.
La solitudine non è un concetto psicoanalitico. Nei suoi scritti, Freud usa la parola “solitudine” solo due volte.1 La considera una dimensione esistenziale seppure strettamente connessa ai processi di separazione individuazione. Pur condividendo il pensiero di S. Freud, se la solitudine è l’esito di una condizione principalmente legata al sentimento d’abbandono e all’angoscia della separazione, in C. G. Jung la solitudine acquisisce una dignità propria e la descrive come una condizione necessaria e indissolubile al processo d’individuazione.
Il viaggio verso l’individuazione racconta quello che ognuno di noi “è”. È un confronto continuo con la realtà per diventare essere individuato e sociale. È un percorso nel quale l’individuo prende dal mondo per restituire all’umanità la propria unicità. Il diventare se stessi, è dunque un lavoro di relazione, dove togli al mondo per restituire con l’unicità del tuo essere.
La solitudine positiva è dunque socializzante, restituisce al mondo e mette in contatto con il mondo sociale. Genera uno scambio autentico e si mantiene nella restituzione al mondo. Nel pensiero Junghiano, l’individuazione fa rima con restituzione.
Tuttavia, il cammino verso l’autonomia psichica separa. Fa sentire soli perché la consapevolezza della propria unicità, differenzia. Non è una questione di abbandono, si è soli perché non esiste nessun altro uguale a te.
Per ultimo, essere individuati non vuol dire essere isolati, tanto meno significa scadere nell’individualismo con la sua polarità opposta nell’omologazione, la singolarità dell’individuo non esclude l’aspetto sociale. Semmai la esalta nell’essere “individuo sociale”.
Sopravvivere alla solitudine
La vera individualità si scopre nella relazione con l’altro attraverso un lavoro continuo di confronto e ricerca. Le nostre vite “oscillano, indugiano, tornano indietro, si rinnovano e si ripetono” (Hilman 1967). Le tappe non sono prescritte o scandite nel tempo. Il superamento è l’arretramento non sono definiti a priori, ma sono analizzabili nella storia di ognuno di noi. “L’affermazione assoluta dell’essere individuale è il più riuscito adattamento alle condizioni universali dell’esistenza, unito alla maggiore libertà possibile di autodeterminazione.”2
Nell’era attuale emergere dalla solitudine è quindi sempre di più un processo che integra la complessità e che fugge dal riduzionismo semplificatore.
Freud3 stesso descrive l’uomo adulto e per estensione separato individualizzato e soggettivato, come l’esito di un processo tra lavoro interno ed esterno, caratterizzato da tre elementi distinti: lo sviluppo individuale, l’elaborazione del momento presente e la socializzazione.
Per sviluppo individuale s’intende l’ontogenesi del soggetto, dal punto di vista psicoaffettivo, pulsionale, relazionale, a partire dalla vita intrauterina fino all’età adulta.
L’elaborazione del momento presente, dalla capacità di elaborare (spostamento e condensazione) la meta cui è rivolta l’energia pulsionale che avviene nel qui e ora presente. Un lavoro non semplice poiché coinvolge la rinuncia parziale alla realizzazione pulsionale e il lavoro di sublimazione.
La socializzazione è il terzo processo coinvolto. Si esprime nella capacità di lavorare e amare ed è riferito dalle limitazioni e regole imposte alla civilizzazione.
Questi tre elementi sono tra loro supportati dal lavoro della sublimazione.
Lo snodo della sublimazione può quindi essere un tema interessante per comprendere come si avvia il complesso meccanismo di regolazione tra libido narcisistica e oggettuale, tra mondo interno ed esterno, e di come essa – sublimazione – si manifesti nell’unicità del singolo a compensazione dello stato di solitudine.
Saltando alcuni passaggi esplicativi sul sistema di regolazione dei meccanismi efficienti dell’inconscio, è possibile riconoscere nell’interiorizzazione psichica il percorso di mediazione dell’Io attraverso un lavoro di assimilazione, dove la natura degli oggetti e delle relazioni oggettuali sono ri-creati e ri-organizzati in un’interazione reciproca. L’Io, mediante un atto di unificazione, crea una nuova unità interna, un mondo ricomposto. La riorganizzazione origina cosi “un’unità differenziata (una molteplicità) che coglie la separatezza nell’atto di unione e l’unità nell’atto di separazione”.4 La differenziazione del narcisismo primario in libido oggettuale e narcisistica è quindi controbilanciata e temperata dalla sublimazione. La sublimazione unisce quanto è stato separato e svolge un ruolo importante nel confronto con la realtà “poiché porta la realtà esterna e materiale entro i limiti della realtà psichica e, quest’ultima, entro il passo di quella” (Loewald, 1992).
E l’aggancio con la solitudine/sublimazione può diventare interessante per comprendere come i nuovi Media alimentano e danno forma a stimoli interni non completamente elaborati.
La solitudine nelle relazioni sociali
Come abbiamo visto in precedenza, il lavoro della sublimazione facilita il passaggio relazionale dal mondo interno a quello sociale. Un processo complesso che lo stesso Freud non esita a definire la “Tecnica dell’arte di vivere”. 5 È un vero lavoro psichico in cui l’ambiente relazionale modula le nostre forme espressive facilitando o contrapponendosi allo sviluppo della forma stessa. Per quanto “ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso”,6 l’incontro con la realtà necessariamente modulerà le forme espressive originarie. L’immagine di noi stessi cambia nel tempo, ma l’individuo rimane fedele a se stesso. L’ossimoro è solo apparente, la gestione della solitudine costitutiva impone un lavoro continuo di adattamento e rimodellamento; un lavoro nel quale l’individuo costruisce il proprio “destino”.7
L’immagine di Sé è dunque la configurazione, relativa e dinamica, che consentirà di mantenere il legame tra interno ed esterno, facilitando o no l’avvicinamento a un “altro” diverso da noi, che ha in comune la nostra stessa solitudine.
La solitudine sospinge, muove verso l’esterno attraverso il desiderio inconfessato di appartenenza.8 Sì perché, proprio l’appartenenza definisce il livello di “scambio” con il mondo esterno. Nel definire i confini relazionali con la famiglia, con i gruppi, con le organizzazioni e nella collettività, colloca il soggetto in una specifica posizione sociale, in un’identità comunitaria che farà sentire meno soli.9
La difficoltà diventa quindi comprendere la qualità del “legame” che orienta le persone verso il mondo sociale, gruppo, organizzazione o collettività. Vivere o aderire all’interno di uno di questi sistemi obbliga l’individuo a “restituire” quanto da questi riceve ed è per questo che “tutte le relazioni hanno un peso”.10 Freud sostiene che “l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibile felicità per un po’ di sicurezza”.11
Tuttavia la qualità del legame compensa questi aspetti negativi dell’appartenenza. Allora l’appartenere è anche opportunità, facilita l’espressione della creatività, seppure all’interno di un sistema di regole prescritto e l’uomo, realizzando azioni e pensieri propri, riceve dal gruppo il riconoscimento della propria unicità.
Nel gruppo grande o piccolo il fare sostanzia nella pratica il legame tra i suoi membri e rende concreta, nel rapporto di vicinanza con l’altro, la relazione che ci allontana dal vissuto di solitudine.
Quando l’individuo trova l’elemento comune che garantisce l’equilibrio tra l’essere e il non essere, superando l’ambivalenza relazionale, può esprimere nel gruppo e nella socialità l’energia per il riconoscimento dell’unicità nella molteplicità. Ha la possibilità di condividere sentimenti ed emozioni. Protetto dalla dimensione sociale, può dimostrare la propria creatività e lenire la propria solitudine interiore, il “male di vivere”.
Nella propositività della relazione, il soggetto avvia una ricerca critica e costruttiva di risposte autentiche ai bisogni esistenziali e psicologici. Quando invece il modello si ribalta e il percorso d’integrazione e individuazione fallisce, il soggetto diventa vittima d’induzione, di persuasione coercitiva, si alimentano l’ignoranza e il pregiudizio sociale, quando il tutto non diventa addirittura psicosi collettiva.
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1 – S. Freud – Al di là del principio del piacere – 1920
2 – C. G. Jung – Op. Vol.17, Il significato dell’inconscio nell’educazione individuale, 1928
3 – S. Freud – Op. Vol. 10, Il disagio della civiltà, 1930
4 – Loewald- La sublimazione, Ricerche di psicoanalisi teorica – Hans W. Loewald (Autore), G. Stella Traduttore 1992
5 – S. Freud – Op. vol. 10 – 11 – Il disagio della Civiltà – 1930
6 – J. Hillman – Il codice dell’anima – 1997
8 – Da Enciclopedia Treccani.it – Appartenenza: concetto di ambito sociologico, studiato con riferimento alla relazione tra l’individuo e le varie forme di azione collettiva. Se per un aspetto l’appartenenza contribuisce a definire i confini e la struttura di un dato sistema sociale, sia esso gruppo, associazione, movimento o Stato, essa è rilevante anche per collocare il soggetto in una specifica posizione sociale, secondo precise caratteristiche di status e di ruolo.
9 – Non mi riferisco al concetto di appartenere che rievoca immagini psicologiche fusionali e simbiotiche.
10 – N. Pelufffo – comunicazione personale
11 – S. Freud – Op. Vol. 10, Il disagio della civiltà – 1930
Ambrogio Zaia, laureato in Pedagogia ed in Psicologia, svolge l’attività di psicologo e di psicoterapeuta.