Riassunto del Mito di Orfeo ed Euridice

Il mito di Orfeo ed Euridice è una storia tragica dell’antica mitologia greca. Orfeo, un abile musicista e poeta, si innamora di Euridice e la sposa. Tuttavia, poco dopo il loro matrimonio, Euridice muore a causa di un morso di serpente. Addolorato, Orfeo decide di scendere negli inferi per convincere Ade e Persefone, il re e la regina del mondo dei morti, a restituirgli Euridice per riportarla in vita. Con la sua musica toccante, Orfeo ammorbidisce il cuore della coppia infernale, che acconsente a concedere il ritorno di Euridice a una condizione: Orfeo deve guidarla fuori dagli inferi senza mai voltarsi a guardarla finché non sono tornati nel mondo dei vivi. Tuttavia, a pochi passi dall’uscita, Orfeo, tormentato dalla paura e dalla dubbia convinzione di aver perso Euridice, si volta a guardarla. Euridice svanisce, condannata a una seconda e definitiva morte.

La struggente narrazione del mito di Orfeo ed Euridice ha ispirato innumerevoli autori attraverso i secoli, diventando un simbolo universale dell’amore, della perdita e del potere della poesia. Da Apollonio Rodio, Platone, Euripide, Virgilio ed Ovidio nell’antichità a scrittori come Cesare Pavese, Cocteau, Dino Buzzati e Edoardo Bufalino nella modernità, il mito ha continuato a riverberare nelle pagine della letteratura continuando a nutrire la creatività e la riflessione degli scrittori di ogni epoca.

Chi è Rainer Maria Rilke

Rainer Maria Rilke, nato a Praga nel 1875 e morto in Svizzera nel 1926, è stato uno dei più significativi poeti di lingua tedesca del XX secolo. Le sue poesie, caratterizzate da una profonda sensibilità e una visione metafisica del mondo, esplorano temi come l’amore, la morte, la natura, la spiritualità e l’arte. 

Alcune delle sue opere più celebri includono le “Le Elegie Duinesi” e “I Sonetti a Orfeo”. Rilke è anche noto per le “Lettere a un giovane poeta”, una serie di lettere in cui condivide consigli sulla scrittura e la vita.

L’influenza di Rilke sulla poesia moderna è significativa, e il suo lavoro ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura mondiale. La sua capacità di esplorare profonde emozioni e questioni esistenziali attraverso la sua poetica lo ha reso una figura iconica della poesia europea e un autore di grande rilevanza per la letteratura del XX secolo.

Riferimento scultoreo del mito di Orfeo ed Euridice

Nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli è conservato un bassorilievo marmoreo raffigurante il drammatico momento dello sguardo di Orfeo su Euridice, la quale per la seconda volta è accompagnata da Hermes, il dio psicopompo (dal greco “colui che manda/spinge l’anima”),  nelle profondità dell’Ade. Si tratta di una copia romana, realizzata nel I secolo a.C./ I secolo d.C.,  di un originale greco di Alkamenes, allievo di Fidia, del V secolo a.C., e ritrovata in una villa marittima nei pressi di Torre del Greco 1.

Hermes, Euridice e Orfeo, bassorilievo. Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Hermes, Euridice e Orfeo, bassorilievo. Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Nella raffigurazione è il linguaggio del corpo dei protagonisti che racconta la vicenda con straordinaria chiarezza espressiva: le posture, le mani e gli sguardi sono fortemente evocativi.
La figura di Euridice, posta al centro del bassorilievo, sembra dividere lo spazio in due: alla sua destra c’è Orfeo che, infrangendo il divieto di Ade e Persefone, le solleva il velo dal viso e finalmente la guarda, mentre alla sua sinistra c’è Hermes che appare “commosso e compreso del dramma umano che si sta svolgendo dinanzi a lui, e di cui egli deve essere purtroppo il rigoroso esecutore”2, raffigurato mentre le afferra il braccio per ricondurla al mondo delle ombre. 

La postura della donna è in direzione di Orfeo, così come i suoi desideri, ma il piede destro è rivolto indietro, verso il dio accompagnatore di anime; come se con il braccio destro Euridice fosse a contatto con la morte e con la mano sinistra incontrasse per l’ultima volta la vita.

Nella copia napoletana del bassorilievo compare un curioso dettaglio: sopra la testa delle tre figure è scolpito il loro nome in greco, ma soltanto quello di Orfeo è scritto al contrario, procedendo da destra verso sinistra (ΣΥEΦΡΟ). 

Dettaglio di Hermes, Euridice e Orfeo, bassorilievo

Dettaglio di Hermes, Euridice e Orfeo, bassorilievo

Questa distinzione formale tra i nomi di Hermes ed Euridice da una parte e quello di Orfeo dall’altra potrebbe indicare che il viaggio dei primi due verso il mondo dei vivi sia appena terminato, mentre quello di Orfeo verso la morte stia per iniziare. O ancora, potrebbe alludere al momento topico “del guardare indietro”; si può infatti osservare come le posizioni dei personaggi siano speculari alla scrittura dei loro nomi: Hermes ed Euridice sono rivolti verso destra, Orfeo verso sinistra, e così i loro nomi. 

Si può affermare con certezza che lo scrittore Rainer Maria Rilke avesse presente la copia napoletana del bassorilievo quando, nel 1904, scrisse Orfeo, Euridice, Ermes e che sia tornato più volte ad ammirarla, come testimonia una pagina di diario scritta dal poeta nel 1906: 

Nel museo di Napoli sostammo [Rilke e Clara, sua moglie] a lungo, questa volta, davanti al rilievo di Orfeo; ci chiedemmo se, daccapo, l’elemento narrativo non giochi un brutto scherzo?3

La poesia di Rilke: Orfeo, Euridice, Hermes

Rilke ha avuto il merito di aver ripreso, dopo secoli di quiescenza (con l’eccezione de La favola di Orfeo di Poliziano del 1480 e  del melodramma di Monteverdi del 1607), il mito di Orfeo ed Euridice, rinnovandone la fortuna e facendolo diventare una sorta di spartiacque tra la classicità e la modernità.

Già a partire dal titolo si ha un’idea di quanto questa poesia sia figlia del Novecento, in particolare se si presta attenzione alla punteggiatura: Orfeo, Euridice, Hermes in cui i primi due nomi sono separati dalla virgola, mentre l’ultimo, quello del dio, è privo di punto fermo. Questa assenza è significativa perché lascia il titolo aperto, senza un segno forte di chiusura, come se l’autore volesse soffermarsi sull’impossibilità dell’uomo di trovare certezze e sul continuo mutamento delle cose; non è un caso forse che la frase termini proprio con il nome di Ermes, il “dio dei viandanti e dei messaggi”4.

Inoltre, visivamente, si crea un’opposizione tra i due sposi mortali e il dio eterno, tra la finitezza di Orfeo ed Euridice e l’illimitata potenza di Ermes. Così anche i versi iniziali della lirica collocano la narrazione entro i confini di un mondo oscuro, un luogo a metà tra la vita, caratterizzata da una durata limitata, e la morte perpetua:

 Era il luogo del mistero
la miniera arcana delle anime.
Nel buio scorrevano in silenzio
come vene d’argento.
Sgorgava tra radici il sangue
che sale al mondo dei vivi,
pesante come porfido, in quel buio.
Null’altro c’era, di rosso 5.

In questa prima strofa l’Ade è dipinto metaforicamente come una miniera, un luogo di transizione tra due mondi, in cui confluiscono le anime dei morti e sgorga il sangue diretto al mondo dei vivi; la “miniera arcana” accoglie in sé una duplice natura, è al tempo stesso “deposito e fonte di sostanze”6, sottolineando in questo modo la compresenza in essa di vita e morte. 

L’inferno rilkiano è un paesaggio oscuro, in cui prevalgono le sfumature del grigio (argento) e in cui l’unico colore cromaticamente acceso è il rosso del sangue che esce con impeto dalle radici, immagine che riecheggia il canto XIII dell’Inferno dantesco, nel quale viene descritta la selva dei suicidi. Dante ode dei lamenti, ma non riesce ad identificarne il punto di provenienza, così Virgilio lo invita a spezzare un ramoscello da uno degli alberi che li circondano: dal taglio escono sangue e parole, le anime sono le piante stesse:

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante? ».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? 


Uomini fummo, e or siam fatti sterpi…»7.

Al di là di quest’eco dantesca 8, Rilke inserirà più volte nelle sue poesie l’immagine del sangue, apparendone quasi ossessionato: egli sosteneva che il suo flusso non fosse altro che la rappresentazione dell’inconscio dell’uomo, ovvero la materia liquida che era l’origine dei mali stessi (nella maturità verrà colpito da una fatale malattia del sangue, la leucemia) 9

Più precisamente ricorre spesso il binomio sangue-radice, non solo all’interno del linguaggio poetico, ma anche in quello colloquiale delle epistole; in Aprile, memorie su Rilke, Lou Andrèas Salome, scrittrice e psicanalista russa con la quale Rilke instaurò un profondo legame affettivo, riprendendo le parole del poeta tedesco, scrive: “E non mormorava allora in noi, quando eravamo insieme, qualcosa d’inafferrabile, che noi – provato e vissuto fin nella più profonda radice della corporeità – «portavamo nel nostro sangue», – e che arrivava fin nel minimo, fin nel più consacrato istante della nostra esistenza?” 10

Le parole della Salome aiutano a chiarire il significato profondo di questa immagine, tanto cara a Rilke: il riferimento alla corporeità e al “più consacrato istante della nostra esistenza” potrebbe alludere alla nascita, e più precisamente alla placenta materna, che nella sua forma ricorda quella di un albero nelle cui radici scorre il sangue che porta il nutrimento al feto:

immagine placenta

Immagine placenta

In quest’ottica appare più chiaro perché il sangue che sgorga dal mondo sotterraneo dell’Ade sia diretto al mondo dei vivi, e nella cupa e tenebrosa dimora dei morti l’azzurro del mantello di Orfeo, il quale procede davanti a Ermes ed Euridice, risalta nell’oscurità: 

Lungo quel sentiero, essi venivano.

L’uomo snello per primo,
avvolto nel suo manto azzurro
guardava avanti a sé impaziente e muto.
A passi grandi come grandi morsi
divorava la strada; tra le pieghe del mantello
le sue mani erano tese e serrate,
immemori di quella cetra lieve
che era cresciuta sulla sua sinistra
come tralcio di rosa sull’olivo 11.

La descrizione dell’uomo che avanza è abbastanza generica: “l’uomo snello…nel suo manto azzurro”, “impaziente e muto”, e potrebbe indicare qualsiasi personaggio; si capisce che si tratta di Orfeo solo in riferimento alla cetra, che per di più ora le sue mani hanno dimenticato. Gli attributi riferiti al poeta, “impaziente e muto”, ricordano al lettore la natura profondamente umana di questo personaggio che si muove nel mondo degli dèi, l’impazienza è la caratteristica che lo rende vivo e che lo spinge ad avanzare veloce, smanioso di rivedere presto la sua Euridice e di uscire da quel mondo tanto spaventoso; essa è anche la qualità tipica della giovinezza, quell’età in cui si vuole ottenere velocemente ciò che si desidera, e nel raggiungimento di tale scopo spesso si procede impulsivamente 12

Al tempo stesso, a Orfeo sono attribuiti tratti animaleschi: “a grandi passi come grandi morsi/ divorava la strada”, e più precisamente egli viene assimilato ad un cane, come si evince dai versi successivi:

Divisi, in lui, i sensi: l’occhio
correva avanti, come un cane,
roteava all’intorno e poi ancora avanti
fino alla prima svolta,
dove si fermava ad aspettare –
restava indietro l’udito,
come un alito 13.

Il riferimento a Cerbero, il cane a tre teste che custodisce l’entrata dell’Ade, è chiaro, poiché Orfeo deve averlo da poco incontrato, trovandosi ormai nei pressi della porta infernale. Il terrore scaturito dalla vista dell’animale mostruoso ha trasformato lo stesso poeta in un essere bestiale, cioè non razionale 14, come se l’autore, connotandolo con tali fattezze, avesse voluto anticipatamente offrire l’attenuante della sua incauta violazione.

Nel versi successivi nella mente di Orfeo si instilla il dubbio che i suoi compagni non siano più alle sue spalle:

Gli sembrava, talvolta, di sentire
il passo di quei due
che dovevano seguirlo fino in alto,
in cima alla salita.
Ma poi di nuovo era soltanto
l’eco del suo passo, dietro di lui,
e il vento del mantello.
Vengono, diceva allora a se stesso,
vengono, diceva a voce alta,
e l’eco della voce si spegneva 15.

Ma egli si inganna:

E tuttavia venivano, quei due,
ma il loro piede era così leggero!
Se avesse potuto voltarsi per un attimo
(ma un solo sguardo e l’opera sua
che ormai era alla fine,
sarebbe andata in pezzi), li avrebbe visti,
quei due, che muti lo seguivano
col loro passo lieve 16.

In questi versi il poeta condensa tutte le fragilità di Orfeo, che, essendo solo un uomo, si muove insicuro e solitario su un sentiero poco battuto, in un mondo che non conosce e dal quale vorrebbe uscire al più presto. L’autore mette tra parentesi, come elemento di secondaria importanza, il punto focale del mito, cioè la violazione di Orfeo; questa decisione potrebbe essere un richiamo virgiliano del verso 487 “namquam hanc dederat Proserpina legem” 17 (e infatti Proserpina aveva dato questa legge) poiché anche l’autore classico sceglie di inserire per inciso quello che per lui è il fulcro della vicenda, che è anche la fonte del πάθος, e cioè proprio l’imposizione degli dèi, che in nessun modo può essere violata dall’uomo.

Contrariamente ai dubbi del poeta tracio, Ermes ed Euridice camminano silenziosi alle sue spalle, e trai due Rilke sceglie di introdurre per primo il dio psicopompo:

il dio dei viandanti e dei messaggi
sui chiari occhi il pétaso calato,
la verga sottile tesa avanti a sé,
le ali fruscianti alle caviglie;
e, affidata alla sua mano sinistra,
come in pegno: lei 18.

Anche in questo caso il personaggio descritto non è citato per nome, ma già a partire dal primo verso come “il dio dei viandanti e dei messaggi”; l’autore ne delinea sinteticamente i tratti salienti, permettendone il facile riconoscimento al lettore, poiché cita i tre simboli del dio: il cappello, i sandali alati e il caduceo.

Dettaglio di Giove, Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi, 1524

Dettaglio di Giove, Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi, 1524

Dopo questa breve ma saliente rappresentazione del dio, nel finale della strofa si fa riferimento a Euridice, che entra compiutamente in scena nei versi seguenti:

Lei – così amata – che una sola cetra
la pianse più di mille donne in lutto;
e tutto il mondo fu in pianto, boschi e valli,
strade e paesi e campi e fiumi e animali;
intorno a questo mondo di pianto
come intorno a un’altra terra
volgevano in silenzio il sole
e il cielo pieno di stelle,
cielo di pianto e stelle sfigurate -:
lei, così amata 19.

La figura di Euridice non è descritta direttamente dal poeta, come era avvenuto precedentemente per Orfeo ed Hermes, ma è presentata con le parole del canto che Orfeo aveva creato per lei e su di lei.

L’epiteto riferito alla donna “così amata”, ripetuto all’inizio e alla fine della strofa, la definisce come oggetto dell’amore di un altro; dunque ciò che l’autore specifica di questo terzo personaggio non è una qualità intrinseca alla sua persona, bensì l’effetto che su di lei hanno avuto i sentimenti del marito. 

Essa vive unicamente entro i confini di quella poesia che tanto l’aveva elogiata: solo quando il sole, il cielo e le stelle sono partecipi del dolore di Orfeo, essi diventano consapevoli dell’esistenza di Euridice.

Ma la sposa del poeta ormai appartiene a un’altra realtà, un incolmabile abisso la separa dal marito:

Stretta alla mano di quel dio,
mite e paziente lei andava,
il passo incerto per la lunga
tunica di morte.
Chiusa in sé, come in una speranza più alta,
non un pensiero per l’uomo che cammina avanti
né per la strada che la porta ai vivi.
Chiusa in sé. E tutta immersa
Nella pienezza del suo essere in morte.
Quella sua grande morte, così nuova,
che la colmava di dolcezza oscura.
Null’altro essa capiva 20.

Finalmente appare Euridice che molto lentamente avanza, affaticata dalle bende funebri che le impediscono un’andatura veloce; la morte la avvolge e la rende “mite e paziente” poiché né desideri né passioni la muovono più: è ormai l’opposto di Orfeo che invece procede inquieto, camminando a grandi passi. Così “nella pienezza del suo essere in morte” Euridice ha raggiunto l’atarassia, e questo la riempie di “dolcezza oscura”;  nient’altro essa concepisce se non la morte, che è ormai la sua nuova vera vita. Solo in questa nuova dimensione la sposa di Orfeo giunge alla sua completa realizzazione, e nella strofa successiva conquista una nuova verginità:

Come in una nuova verginità, intoccabile;
chiuso il sesso, come un fiore a sera,
le mani così disabituate alla vita di sposa
che il contatto con la mano del dio –
lievissimo tocco della dolce guida –
era troppo intimo per lei, e la turbava 21.

Si noti che l’autore non spende nessuna parola in merito alla bellezza della donna, come ci si potrebbe aspettare parlando di una giovane donna morta prima del tempo; ma il riferimento alla nuova verginità di Euridice ottiene un effetto ancora più potente poiché è da intendersi come un’allusione a Venere, dea dell’amore e della bellezza, e dotata, come molte altre divinità, della capacità di riacquistare il suo stato verginale. Dunque Euridice, anche da morta, assomiglia alla bellissima dea 22 e non potrebbe esserci elogio più alto; e in questo modo potrebbe sembrare che Rilke cerchi di mettersi in competizione con lo stesso Orfeo.

Inoltre quella di Euridice è una perdita che il marito vorrebbe annullare, eppure non ne è capace perché non solo la sua amata non gli appartiene più, ma semplicemente non esiste più:

La bionda sposa che il poeta
Aveva cantato nei suoi versi,
il profumo della sua vita,
l’isola del suo ampio letto.
Non era più sua, non era più 23.

In questa strofa Rilke sembrerebbe riprendere il racconto virgiliano del mito, portandolo però all’estremo: il heu non tua” (Ahimè non tua), verso 498 delle Georgiche 24 recitato da Euridice, che allude alla sua non più appartenenza al marito, viene accresciuto dall’inesistenza di lei, o meglio, come si vedrà nei versi successivi, dalla nuova condizione in cui Euridice si trova ad essere.   

Infatti, come in un ciclo di vita e morte, Euridice ritorna al suo stato primordiale:

Era come lunga chioma disciolta,
diffusa come pioggia sulla terra,
ricchezza in mille parti divisa.

Era radice, ormai 25.

Con tre similitudini Euridice torna a fondersi con la terra, e la sua persona si disperde  nell’inconsistenza del non-essere; la metamorfosi termina con la sua trasformazione in radice, quella radice che compare nella prima strofa e che è la fonte da cui sgorga il sangue diretto al mondo dei vivi. 

Si direbbe che l’autore, riprendendo a questo punto il filo narrativo della strofa iniziale, abbia voluto raccontare il ciclo dell’esistenza dell’uomo, che nasce dalla terra e che con la morte vi ritorna, ricalcando il biblico In sudore vultus tui vesceris pane, donec revertaris in terram de qua sumptus es: quia pulvis et in pulverem reverteris26, “Con il sudore della fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere sei e in polvere tornerai!”. 

Ormai Euridice è compiutamente un’abitante di un altro mondo, di un’altra realtà “che nemmeno la poesia più sublime può abbracciare o comprendere”27Di conseguenza, appartenendo ormai a questa diversa dimensione, la vita che Euridice aveva vissuto in compagnia del suo sposo non le appartiene più, ed è ormai irrimediabilmente  avvolta nell’oblio:

E quando, all’improvviso,
il dio la trattenne e con dolore
esclamò: Si è voltato –,
lei non comprese e disse, piano: Chi?
Ma in lontananza e in ombra sulla soglia chiara
Stava qualcuno – il volto era invisibile.
Restava là e guardava
La traccia di un sentiero in mezzo ai prati
Dove il dio dei messaggi, triste in volto,
si volgeva in silenzio per seguire lei,
lei che già tornava sulla stessa via,
mite e paziente col suo passo incerto
frenato dalla lunga tunica di morte 28.

Il volgersi di Orfeo, nella parte finale della poesia, è incomprensibile per Euridice e il suo aspetto irriconoscibile; l’unica parola pronunciata dalla donna è un fievole “Chi?” che sembra risvegliarla da un sogno, rivelandone tutta l’alterità 29. Eppure in Rilke la morte e la vita non paiono escludersi l’un l’altra, piuttosto si presentano come due realtà coesistenti.

A tal riguardo l’interpretazione che Iosif Brodskij offre di quest’ultima strofa è illuminante perché pone l’accento sul volgersi dei due amati, in particolare l’avverbio “già” del terzultimo verso rivela che Orfeo ed Euridice si sono voltati nel medesimo istante: Orfeo, che si è appena girato, “restava là e guardava” il dio dei messaggi che si volta per seguire Euridice “che già tornava sulla stessa via” e che quindi aveva intrapreso il suo cammino a ritroso in precedenza; dunque i due amati hanno agito simultaneamente, l’una spinta dalle forze che controllano l’infinito, l’altro da quelle che regolano il finito, entrambe governate a loro volta attraverso ciò che Brodskij chiama “pannello di controllo automatico” 30

Triste testimone di tale evento è Hermes, che risulta essere anche l’ultimo a voltarsi indietro, come ultima è la posizione che nel titolo assume il suo nome, distinto, come esposto in precedenza, dalla coppia Orfeo-Euridice anche per quanto riguarda la punteggiatura. Egli assiste metaforicamente al limite che la poesia incontra, da una parte nel “tentativo di valicare l’abisso tra l’Io e l’altro, tra la sfera della soggettività e quella dell’oggettività”31, espresso da Rilke con lo spostamento del focus narrativo da Orfeo a Euridice, dall’altra nello sforzo di penetrare il grande enigma della morte.

Perché Orfeo decide di voltarsi perdendo per sempre la sua Euridice?

Per approfondire quest’ultimo punto bisogna indagare sulle motivazioni che, secondo la visione rilkiana del mito, hanno spinto il poeta tracio a voltarsi, provocando una seconda morte per Euridice che porterà, a sua volta, alla morte di Orfeo. Prima di tentare di darvi una risposta, occorre soffermarsi su alcune riflessioni dell’autore, che permettono di afferrare più profondamente il senso della lirica e della sua poetica in generale. 

Per tutta la vita Rilke aveva sofferto di forte angoscia, depressione e gravi malesseri fisici, ai quali tentava di sfuggire senza trovarne il modo. Nel primi anni del secondo decennio del Novecento conosce Freud e scopre così la psicoanalisi, verso la quale nutrirà sempre grande attrazione, consapevole che l’analisi avrebbe potuto essere l’unico mezzo in grado di alleviare le proprie angosce; eppure si trattiene sempre dall’intraprendere questa terapia, temendo che i suoi effetti collaterali possano distruggere la linfa vitale della sua poesia, come scrive a Gebsattel, psicanalista di sua moglie Clara: “se vengono scacciati i miei demoni, i miei angeli potrebbero avere leggermente, diciamo anche solo un tantino paura”32

Anche la stessa Lou Andreas Salome ne condivide il pensiero, convinta che la sofferenza sia indispensabile all’artista, perché nutrimento della poesia, e in uno scambio epistolare del 1913, la Salome scrive a Rilke: “il poeta che è in te scrive versi che nascono dalle angosce umane. Non credere che sarebbe andata necessariamente così in qualsiasi altra circostanza!”33, poi un decennio più tardi, quando il poeta intensifica le sue lamentele, gli risponde: “Sono fermamente convinta che non sia possibile modificare questo stato di cose e ne sono contenta, perché operare dei cambiamenti comporterebbe la più spaventosa delle fratture. Io credo che tu debba soffrire e soffrirai sempre”34

Il dolore è il prezzo che l’artista deve pagare per rendere grandiosa la sua arte, e questo Rilke lo sa bene, eppure “la vita alimenta l’opera, ma l’opera non aiuta a elevare la vita, è una relazione a senso unico”35. Rilke aveva appreso questa certezza dalla vicenda personale del suo caro amico Rodin, capace di creare opere magnifiche, la cui grandiosità però non trovava riscontro nella vita privata, agli occhi del poeta tedesco mediocre come quella di molti altri esseri umani. 

I due artisti ebbero modo di conoscersi nel 1905, quando Rilke iniziò a lavorare come segretario dello scultore, occupazione che durò solo fino a maggio dell’anno seguente poiché Rodin decise di licenziarlo. Nonostante ciò il loro rapporto riprese qualche anno più avanti, e, con alti e bassi, continuò fino alla morte dello scultore. Quest’ultimo realizzò anche una raffigurazione marmorea di Orfeo ed Euridice, oggi conservata al Metropolitan Museum di New York, in cui i due sposi sono raffigurati mentre escono da un fondale roccioso ed Euridice sorregge in un abbraccio Orfeo, profondamente afflitto, che si copre il viso con la mano sinistra. L’opera sviluppa un gruppo studiato per la Porta dell’Inferno e viene tradotto in marmo solo nel 1894 “con soluzioni di non finito dichiaratamente michelangiolesche” 36.

Rodin, Orfeo ed Euridice, 1887-1893

Rodin, Orfeo ed Euridice, 1887-1893

A questo punto le parole spese sulla vita e sui pensieri di Rilke dovrebbero aiutare a capire il senso della poesia in analisi: Orfeo si volta perché, in qualità di poeta, non ha altra scelta; solo in questo modo può assicurarsi la grandezza della sua poesia. Senza la sofferenza scaturita dalla perdita di Euridice egli non sarebbe stato in grado di comporre un canto di lamento e di morte all’altezza della sua arte, così come Rilke non sarebbe stato capace di arrivare ai vertici della sua poesia se avesse lenito per sempre il suo dolore: “l’artista rinuncia a una parte della propria esistenza perché, grazie alla sua arte, l’universo intero si manifesti in pienezza: il gioco vale la candela”37.

Tale concezione viene portata a compimento da Rilke nel XIII sonetto, scritto nel 1922, del secondo libro dei Sonetti a Orfeo, opera della maturità, in cui Orfeo compare come perfetta astrazione della poesia 38:

Sii prima di ogni addio, come fosse già dietro
di te, come l’inverno, che già ora finisce.
Ma tra gli inverni c’è un inverno tanto infinito,
che a svernarlo il tuo cuore a tutto sopravvive.
Sii sempre morto in Euridice –, innalzati cantando,
e, celebrando, innalzati di nuovo al rapporto puro.
………………………………………………….
Sii – e sappi anche la condizione del Non Essere,
indeterminato fondamento della tua intera oscillazione,
che tu questa volta almeno la porti a vero compimento 39.

Il cantore viene invitato ad anticipare ogni addio e a sublimare la sua esistenza nella morte dell’amata, che solo con la morte era riuscita a completarsi in Orfeo, Euridice, Hermes mentre Orfeo era “troppo solamente vivo” per poter comprendere.

Lettura psicoanalitica della poetica rilkiana

Uno stimolante aiuto per la lettura di questi versi, senz’altro ermetici e anche un po’ criptici, può venire dalla psicoanalisi freudiana e precisamente dai concetti più volte rivisti e rimaneggiati da Freud di pulsione di morte e libido.

Nei due scritti fondamentali della maturità, Al di là del principio di piacere del 1920 e L’Io e l’Es del 1923, Freud giunge ad ipotizzare la presenza nell’essere umano di una tendenza originaria all’aggressività e alla distruzione, che chiama “pulsione di morte”. Accanto alla potenza pulsionale dell’Eros e della libido sessuale la psiche, è mossa da una forza originaria che spinge non a creare unioni e legami, bensì a distruggerli. Non si tratta di una visione moralistica del distruggere, ma totalmente neutra: il padre della psicanalisi si rende conto che per l’apparizione della vita, in concordanza al postulato fondamentale di Lavoiser, “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, deve esistere una spinta naturale alla disorganizzazione della materia, una spinta verso l’inorganico. Al medesimo tempo postula che la creazione della vita sia essa stessa un trauma, poiché strappa la psiche nascente dalla quiete totale dell’inorganico.

In questa teoria si inquadra la coazione a ripetere (la spinta a ripetere le esperienze traumatiche nell’illusione onnipotente di poterle mutare) e il tentativo di annullare il trauma del distacco dal nirvana totale dell’indifferenziato, “l’indeterminato” rilkiano che attrae l’essere umano come un magnete, come l’Ade desiderato e temuto, ambivalenza basilare dello psichismo umano.

Alcune moderne correnti della psicoanalisi freudiana, in particolare la scuola italiana di Nicola Peluffo, parlano oggi di un’unica pulsione, la pulsione di morte-di vita e della sua “oscillazione”, usando lo stesso termine scelto da Rilke. 

Dunque per quanto riguarda il mito, alla classica opposizione della lotta tra Amore e Morte della tradizione greca e latina, Rilke sostituisce un concetto di vita e morte nell’amore, della presenza cioè “della morte dentro la vita e le sue forme più alte e intense”40.

Con questo slittamento di prospettiva l’autore tedesco segna un passaggio interpretativo per gli altri autori novecenteschi che si accingono ad avvicinarsi alla trattazione del mito di Orfeo ed Euridice.

 

© Lucrezia Zangrilli

 

1 Le collezioni del Museo Nazionale di Napoli, a cura dell’Archivio fotografico Pedicini, 1989, Milano, p. 148. torna su!

2 Alfonso de Franciscis, Il Museo Nazionale di Napoli, Di Mauro editore, 1963, p. 65. torna su!

3 R.M. Rilke, Poesie, a cura di Giuliano Baioni, commento e note di Andreina Lavagetto, Einaudi, 1994, p. 938. torna su!

4 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes, in M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, Marsalino, Venezia  2004, p. 59. torna su!

5 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes, in M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 57. torna su!

6 Iosif Brodskij, Dolore e ragione, cit., p. 211. torna su!

7 Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno,  Mondadori, Milano 1991, vv. 31-36, pp.  397-399. torna su!

8 Si fa notare,  per inciso, che certamente Dante aveva ben presente l’episodio di Polidoro narrato da Virgilio, Eneide, libro III, vv. 22-48. torna su!

9  Cfr. Tzvetan Todorov, La bellezza salverà il mondo, Garzanti, Milano 2010, p. 85. torna su!

10 Lou Andreas Salome, Aprile. Memorie su Rilke, a cura di Susanna Mati, Pistoria 2003, p. 5. torna su!

11  Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 58. torna su!

12 Iosif Brodskij in Dolore e Ragione sostiene che “muto e impaziente” è una caratterizzazione che potrebbe far pensare “ a qualche reminiscenza personale, al senno di poi, se volete, a un rimpianto tardivo” dell’autore stesso che si immedesima in Orfeo, cit.,  p. 227. torna su!  

13 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 58. torna su!

14 Cfr., Iosif Brodskij, Dolore e ragione, cit., p. 229. torna su!

15 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 58 torna su!

16 ibidem torna su!

17 Virgilio, Georgiche, a cura di Antonio La Penna, Luca Canali e Riccardo Scarcia, p. 346 torna su!

18 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 59. torna su!

19 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes, in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 59. torna su!

20 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 60. torna su!

21 Ibidem torna su!

22 Cfr. Iosif Brodskij, Dolore e ragione, cit., p. 248. torna su!

23 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 60 torna su!

24 Virgilio, Georgiche, a cura di Antonio La Penna, Luca Canali e Riccardo Scarcia, cit., p. 346. torna su!

25 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 60. torna su!

26 San Girolamo, Vulgata, Genesi 3,19 torna su!

27 Marina di Simone, Amore e morte in uno sguardo, cit., p. 43 torna su!

28 Rainer Maria Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes, in  M.G. Ciani, Orfeo. Variazioni sul mito, cit., p. 60. torna su!

29 Cfr., Marina di Simone, Amore e morte in uno sguardo, cit., p. 46. torna su!

30 Cfr. Iosif Brodskij, Dolore e ragione, cit., p. 260. torna su!

31 Charles Segal, Orfeo, il mito del poeta, Einaudi, Torino 1995, p. 185. torna su!

32 Rilke, Quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, Milano 201014,  A Gebsattel, 14 gennaio 1912. torna su!

33  Ivi, p. 42. torna su!

34 Lou Andreas-Salome e Rilke, Da qualche parte nel profondo, lettere 1897-1926, a cura di Sabrina Mori Carmignani, Passigli Editori, lettera di Lou a Rilke 13 gennaio 1913, p. 88. torna su!

35 Tzvetan Todorov, La bellezza salverà il mondo, cit., p. 137. torna su!

36 Flavio Fergonzi, Maria Mimita Lamberti e Christoper Riopelle, Rodin e Michelangelo,  Edizioni Charta, Milano 1996, p. 139. torna su!

37 Tzvetan Todorov, La bellezza salverà il mondo, cit., p. 136. torna su!

38 Cfr., Marina di Simone, Amore e morte in uno sguardo, cit., p. 46. torna su!

39  Rainer M. Rilke, I Sonetti a Orfeo, traduzione e cura di Franco Rella, Feltrinelli Editore, Milano 1991, sonetto XIII, p. 97. torna su!

40 Marina di Simone, Amore e morte in uno sguardo, Libri Liberi, Firenze 2003, p. 47. torna su!