Volendo affrontare un esame dell’individuo contemporaneo presto ci si accorge che non è tanto la complessità a qualificarlo quanto la rischiosità, specie quando all’argomento si accosta il tema dell’identità, oppure della cultura di appartenenza. A questo punto l’operazione di riflessione comincia a somigliare al maneggio di un oggetto tagliente, poiché si entra in un problema che genera facilmente equivoci, che ha suscitato in passato molti conflitti e che tuttora continua a suscitarli, forse più di prima. Le conseguenze sono ferite che tardano a rimarginarsi e che risultano spesso insanabili, oltretutto difficili da collocare in una interpretazione coerente e definitiva, lontana da controversie e talvolta da spaccature.

Affronteremo il tema partendo da una scala generale, che riguarda la realtà e l’individuo contemporaneo, considerato che oggi non esistono più problemi individuali, comunitari o locali che non trovino corrispondenza (e soluzione) in problemi collettivi, socio-culturali e globali. Fare diversamente significa esporsi ad una distorsione, che implica soprattutto la perdita di buone possibilità.
Inoltre, per affrontare efficacemente il tema occorre adottare una sorta di colpo d’occhio, come invitava a fare Leopardi quando ci si trova nella circostanza di dover comprendere il funzionamento di un grande e complesso ingranaggio
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Diffusione del globalismo. Caduta del muro di Berlino. Reviviscenza dei Nazionalismi. Attentato alle Torri Gemelle. Costituzione di blocchi nazionali secondo una matrice civile o religiosa. Affacciarsi delle potenze economiche asiatiche. Crisi dei mercati e delle economie occidentali. Conflitti etnici. Mafie.
Dopo questa serie vorticosa di eventi rilevanti che si sono succeduti dagli anni Ottanta all’inizio del nuovo millennio 1 , si sono aperti nuovi scenari in relazione all’identità degli individui e alle società in cui convivono. La situazione più particolare è possibile riscontrarla nei primi decenni del nuovo millennio. In questa fase è diventato un problema fondamentale la questione dell’identità. Si assiste spesso all’insorgere di una istanza urgente che la riguarda. Questa istanza nasce da un bisogno di sicurezza e di appartenenza, susseguente ad una richiesta di libertà e di labile appartenenza che invece prevaleva sino agli anni Ottanta o poco oltre.
Il minimo che si possa dire è che ci troviamo in una situazione molto particolare e aleatoria, che partecipa di uno stato complessivo di riformulazione delle regole di convivenza tra le diverse forme di società, quindi di uno stato complessivo di riformulazione delle regole di convivenza all’interno di ogni singola società.
E’ una condizione che potremmo definire epica, per i risvolti drammatici ed eroici, conflittuali e complessi che assume ad un livello quasi planetario.
Per definire in una formula sintetica la caratteristica dell’individuo contemporaneo possiamo ancora far ricorso a quanto affermava Simmel ai principi del ‘900: “L’individuo è ridotto ad una quantità trascurabile, ad un granello di sabbia di fronte a un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, trasferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva”2
Nella società globale, l’individuo si ritrova sempre più distanziato da questa organizzazione delle cose e dei poteri – definibile astrattamente come sistema delle forze della globalizzazione (frutto di una integrazione/interazione tra poteri politici, economici e mediatici). Allo stesso tempo è sempre più governato da un paradigma simbolico prodotto da tale sistema ai fini della costruzione artificiosa di una soggettività consenziente e passiva, cioè priva di capacità critica. L’individuo è stato in larga parte sospinto verso una condizione generalizzata di narcisismo, che si diversifica lungo una linea di variazione distribuita tra due poli opposti, l’entusiasmo onnipotente e la chiusura intimista-luttuosa. Come ben sappiamo, l’individuo è diventato sempre più Io, e ha fatto e fa ancora appello alla supremazia del suo Io, con due modalità diverse: o mediante la ricerca della felicità attraverso l’espressione smisurata di una libertà del volere, rapportata al desiderio e alle pulsioni; o mediante l’accettazione di una forma ridotta di felicità attraverso il contenimento della libertà del volere, rapportata ad una rimozione del desiderio e delle pulsioni. La posizione dominante, almeno sino alla soglia del nuovo millennio, è stata soprattutto la prima, quella del narcisismo come forma di onnipotenza. Di fatto si è tradotta, in maniera spesso immotivata, in un atto generale di conferimento di priorità ai desideri soggettivi. Una identità di tipo dionisiaco, definibile sinteticamente come identità borderline.
Sappiamo bene che questi risultati sono dovuti principalmente all’azione di una particolare logica economica di mercato che costituisce l’essenza del sistema delle forze della globalizzazione. Le principali caratteristiche sono la creazione di desideri attraverso la produzione di merci, il consumo facile e veloce delle merci (nonché dei desideri), quindi la trasformazione dei desideri in equivalenti delle merci – secondo un ciclo chiuso su stesso e quasi infinito, senza una precisa finalità se non l’autoriproduzione. Come è ormai risaputo, attraverso questa complessa operazione si riesce a veicolare una serie di simboli e valori capaci di imporsi sulla sfera più intima degli individui, sino al punto da condizionarne le azioni e le esperienze, per uniformarli in una vasta comunità di credenti (la cosiddetta “massa individualizzata”). In sostanza si modellano i comportamenti, l’idea di società, l’idea del Sé, i modi di percezione e di costruzione sia dello spazio che del tempo, le forme di convivenza. Peraltro è proprio il principio di realtà che viene ad essere maggiormente intaccato, a favore invece di un incremento di legittimazione del principio di piacere e dell’immaginazione. Di conseguenza l’immaginario assume un valore prevalente rispetto al reale, contribuendo in larga parte a rendere la rappresentazione immaginifica come unico legame credibile tra gli individui e la realtà stessa. Stato di allucinazione, stato psicotico potremmo dire. Una condizione estatica che è tipica del sogno, e che rende la realtà un sogno ad occhi aperti, rende la realtà poco credibile qualora sprovvista di un innesto immaginifico. Addirittura è la realtà stessa a scomparire, nel caso in cui sono i mezzi mediatici a trattarla o manipolarla.
Abbiamo detto una realtà che ha assunto i connotati del sogno. Sarebbe ancor più opportuno definirla come realtà trasformata in un mondo in cui le opposizioni sono attenuate e fatte coesistere, le identità sono rese polivalenti e prive di differenze nette tra vero e falso. Il legame con gli oggetti, con le merci, anche tra gli individui, può assumere aspetti di fascinazione a carattere feticistico. Un mondo ambivalente dunque, che resiste alle interpretazioni della ragione, ma che è soprattutto capace di azionare una dinamica complementare di trascendimento della realtà, di trasfigurazione di essa e di identificazione nella dimensione illusoria che riesce a costruire. Proprio come succede nel Mito. Pertanto, non è difficile scorgere nell’operazione messa in atto dalle forze globali, la presenza di un dispositivo di mitopoiesi, ossia una procedura di creazione di simboli dotati di un valore mitico. In pratica si adottano le stesse procedure formali messe in atto nelle comunità tribali attraverso il sistema religioso, o le pratiche magiche, artistiche e cultuali, al fine di definire un Ethos dell’Ethnos. L’ideologia globale compie proprio questa operazione, veicolando però contenuti più labili, in rapporto alla definizione di un Ethos effimero, facilmente deteriorabile (come le merci). Non si tratta dunque di una invenzione, è piuttosto una estrapolazione: non tanto nei confronti degli Ethnos tribali, quanto dei sistemi di consenso allestiti dalle ideologie totalitarie del XX secolo. Cambia la modalità, ma la finalità è simile. E’ uno strano paradosso quello che accompagna la tanto agognata diffusione delle società democratiche e libertarie nell’era globale.
C’è un’altra particolarità rilevante di quest’era, che riguarda gli individui. Il percorso verso l’identità è stato deregolamentato, nel senso che sono stati dissolti principi e modelli prefissati ai quali l’individuo possa conformarsi; tutto è ricaduto sulla sua responsabilità-libertà di scelta. Il problema dell’identità è diventato prevalentemente una questione da dirimere singolarmente, da parte di ogni singolo individuo, sul quale far ricadere le opzioni, gli indugi, le manchevolezze, le capacità o le incapacità di saper selezionare, le vie e i modi di compromesso, le responsabilità di vincita o sconfitta, l’assunzione o la non assunzione dei rischi o dei pericoli dell’impresa. Inoltre, ricadono sull’individuo le responsabilità di costituirsi una comunità o di saperla scegliere e gestire, addirittura con l’onere di risolverne le contraddizioni (la cosiddetta ritirata dello Stato sociale). E’ una pratica del tutto singolare e particolareggiata questa: ogni vita non può essere uguale ad un’altra; ogni vita è dotata di una sua parvenza di moralità purché conforme ad una idea estensiva di libertà (come dice U. Beck). Una società di individui liberi e competitivi: i cosiddetti “individui pretendenti”, direbbe Deleuze (carattere radicato nella società occidentale, malata di cinismo e scetticismo, sul genere dei pretendenti di Penelope …).
Da diversi decenni siamo ormai immersi in questa sorta di utopia straniante della modernità liquida, le cui caratteristiche vanno ben oltre i termini sopra enunciati, cioè della creazione di desideri, della crescita dei consumi e della spinta alla soggettivazione forzata degli individui. Bisogna aggiungere che a questi obiettivi se ne aggiunge un altro particolarmente rilevante, ossia la necessità di dissolvere lo stato di ambiguità delle identità. Questo obiettivo è condiviso sia dai fautori della globalizzazione sia da coloro che ne subivano le conseguenze negative, ossia coloro che subivano l’imposizione di una identità diversa da quella desiderata o una identità diversa da quella già posseduta, oppure coloro che subivano una negazione della propria identità in quanto individui sprovvisti di mezzi e risorse per superare una condizione frustrante di singolarità.
Prima di inoltrarci in un esame più approfondito della questione appena esposta, o se vogliamo di questa svolta venutasi a creare in modo chiaro nella vita degli individui in quest’ultimo decennio, è necessario chiarire ulteriormente cosa comportava l’utopia del mondo come mercato dei valori esteso a tutto il territorio popolato. E’ necessario definire soprattutto cosa comportava e cosa comporta ancora oggi, sebbene in misura molto limitata, la diffusione estensiva e senza limiti geografici, culturali e nazionali di una ideologia fondata sull’imperativo del desiderio e del relativo impegno al godimento. Scatenare i demoni dell’individualismo, dell’edonismo, del materialismo, della libertà (in senso competitivo), dei comportamenti antisociali, delle identità ibride e multiculturali: per il beneficio di chi ?
Si offre agli individui l’illusione di possedere un’identità senza suscitare il sospetto di non possederla realmente, facendola oltretutto percepire come un valore acquisibile, scambiabile o sostituibile. Per giunta si dà la sensazione di una facilità del lavoro necessario per costruirsela. Una impostazione basata sulla leggerezza, o meglio, sulla superficialità.
Cosa significa tutto questo? Significa inoltrarsi in una pratica di libera e indeterminata assunzione di modelli di identità secondo una ricerca indiscriminata volta al piacere edonistico, alla convenienza utilitaristica e al libero volere come affermazione autonoma del sé; a sua volta connessa a un comportamento basato sui presupposti del “carpe diem”, dell’opportunismo, della flessibilità adattativa, dell’interscambiabilità, dell’arbitrarietà, del manierismo simulativo. Libertà di cambiare in ogni momento qualsiasi aspetto e ornamento dell’identità che si possiede, e di sperimentare tutti i possibili e infiniti fini che si possono ottenere con l’ausilio dei mezzi già ottenuti e ottenibili, alla propria portata o fuori portata. Quindi l’identità come assunzione di un equipaggiamento, a cui fa capo un processo artificioso di allestimento. L’identità come pratica ambigua della dissolvenza, come pathwork variabile o come pastiche, ossia figura porosa, temporanea, limitata ma soprattutto superficiale, cioè priva di radicamento e di profondità, priva di marcate definizioni, ambigua, vaporosa. Ma anche una identità caratterizzata da un Io dimentico di sé, che non riflette su quanto gli avviene e su quanto percepisce, poiché preso dal moto del suo desiderio e dal moto conseguente di abbandono al mondo e all’eventuale divoramento del mondo (una dinamica orale quindi, cioè di “suzione” dell’esteriorità, senza un reale assorbimento). Una identità che sopravvive allo sradicamento e allo straniamento tuffandosi pienamente in una condizione di apertura al nomadismo e all’estraneità, affidandosi fiduciosa e bramosa all’incontro con l’Alterità, trascurando qualsiasi rapporto con il mondo familiare, con la Casa, le radici, il Luogo, il materno. Identità che naviga nel mare di nessuno, inebriandosi di vita inautentica e di decisioni brevi, soprattutto rendendosi assente agli appelli dell’autocoscienza e dell’autoriflessione. Libera dal bagaglio ingombrante di una Memoria del passato e dal vincolo di una appartenenza; così libera, leggera e onnipotente da rinunciare a qualsiasi bisogno di sovranità dell’Io cosciente che si autotrascende per accrescere i suoi livelli di consapevolezza del mondo, interiore ed esteriore.
C’è da chiedersi: questa pratica della dissolvenza dell’identità è praticabile da tutti? Chiunque può vivere questo sogno a occhi aperti? La risposta è no: possono accedervi o praticarla solo coloro che sono provvisti dei mezzi e delle risorse necessarie per sostenerla, cioè da coloro che dispongono di un consistente “ammontare di capitale” (finanziario, sociale, biologico, conoscitivo, libidico) da investire nel gioco competitivo all’acquisizione di identità virtuali – cioè dai “ricchi pretendenti” che possono sostenere i costi della sperimentazione dell’identità. Costoro non possono soffrire dello scioglimento dei legami identitari; possono semmai provare l’angoscia di perdere i benefici acquisiti a causa delle insidie e degli assedi posti da coloro che sono privi di mezzi e di risorse sufficienti per sostenere la competizione alla soddisfazione del desiderio. E’ da costoro che devono guardarsi, ossia da chi vede svanire l’identità acquisita nella scala sociale, nell’organizzazione lavorativa, nei diritti di cittadinanza: quegli individui investiti dall’onda della globalizzazione, che perdono la loro posizione e si vedono imposta un’altra identità, sicuramente non scelta, per cui sono costretti a migrare, spostarsi, divincolarsi nel panorama sociale e territoriale, ponendosi magari in agguato. La loro possibilità consiste nell’ adattarsi ad una vita inautentica, acquisendo al contempo una serie di competenze utili per cogliere la buona occasione che permetterà la redenzione del nodo dell’identità – e provando nel frattempo una grande nostalgia per il mondo di appartenenza che si lasciano alle spalle, cioè il mondo di individui-persone di una città inserita nella macrostruttura di uno Stato e di una Nazione, guidati da una ideologia emancipativa o da una cultura ancorata alle tradizioni, al luogo, ai legami di sangue e a un sistema etico predefinito. Questi individui provano meno angoscia, soprattutto paura. Anche loro si abbandonano alla sorte per cercarsi un miglior destino, con un Io dimentico di sé; non per scelta bensì per forza di cose. Pertanto la loro prospettiva è molto più ristretta di coloro che dispongono dei mezzi per sperimentare le identità. Più che grandi benefici da conquistare, hanno piccoli benefici da difendere. Per altri versi però, la loro prospettiva è meno angusta di un altro genere di individui sottostanti, portati ad unire o sovrapporre sorte e destino nel fatalismo, poiché subiscono del tutto gli effetti negativi della globalizzazione.
Questi ultimi individui, posti ad un gradino ancora più basso, sono quasi anonimi, poiché sono sprovvisti del tutto delle potenzialità necessarie per accedere al grande mercato delle chance identitarie o perché sono usciti sconfitti dalla competizione. Costretti pertanto all’emarginazione, a rinchiudersi o essere rinchiusi in una nicchia o in un territorio delimitato, poiché impossibilitati al gioco, questi individui ultimi sono gli esclusi per eccellenza. Sono i profughi, i senza Stato, i tossicodipendenti, i senza casa, i mendicanti, i vagabondi, i disoccupati, i ribelli, i clandestini, i folli, i disadattati, i falliti, gli individui “vecchi” o “bambini” nella loro identità. Tutto uno strato di emarginazione. Costoro ricadono facilmente nell’intimismo solitario, nella decostruzione del sé, e hanno come unica possibilità di salvezza l’affidarsi a comunità vincolanti, cioè a chiudersi in una forma di convivenza a carattere sociale, etnica, religiosa o etica. Condizione minoritaria votata alla separatezza dalla vita. Appartengono a questo insieme anche coloro che passano il confine della legalità e si pongono in una zona al limite, pronti a passarla per sconfinare sul versante apicale di coloro che vivono il desiderio come manifestazione di onnipotenza e di potere, quindi nella schiera più avanzata dei pretendenti – con il rischio però di ricadere in qualsiasi momento nella falda più bassa ed emarginata degli individui.

Tutto questo oggi è soggetto ad una modificazione. Non si tratta tanto di un cambiamento, quanto dell’acuirsi di contraddizioni già presenti in precedenza, sebbene in forma controllabile, ma che oggi si sono esaltate e sono oggetto di terribili contese.
Oggi si mira soprattutto al controllo dei desideri. Poche possibilità di scavalcare i confini. Poche disponibilità ad accettare condizioni di permanenza dell’identità in uno stato di ambiguità. Anzi, il bisogno di identità, la ricerca di una “reale” identità è diventata una necessità ampiamente condivisa. C’è sete o fame di identità. Sembra proprio che quello stato di angoscia, di paura e di malinconia luttuosa provata dagli individui nelle diverse posizioni della scacchiera, si siano accentuate sino al punto da convogliare indistintamente gli individui verso un accordo comune, segnato dalla rivalutazione di un sistema etico forte e ben radicato, roccioso – a suo tempo accantonato e reso virtuale, dichiarato perduto, o coltivato soltanto ai margini della scacchiera. Bisogno di radicamento, desiderio di comunità, di tradizioni e di memoria, rafforzamento dei legami, richiamo all’appartenenza. Tutta una serie di istanze che coinvolgono non solo i singoli individui, ma gli Stati e le Nazioni, le struttura maggioritarie e le microstrutture minoritarie di convivenza degli individui. Sembrerebbe avverarsi la speranza universale di costruire una molteplicità di identità definite, spinte verso l’amore reciproco e il mutuo riconoscimento. Kant potrebbe gioire. Ma non è così. Qualcosa di profondo, qualcosa di affine alla natura dell’angoscia, della paura e del sentimento luttuoso, sembra porre un ostacolo alla realizzazione di questo felice disegno. Melanie Klein, senza indugi, chiamerebbe questo ostacolo con il nome di odio, ossia quella forza originaria e regressiva espressa dal Thanatos, che impedisce qualsiasi forma di reale integrazione e costruzione di una identità, qualsiasi forma di creazione/creatività. E’ il Thanatos che predomina, e poco viene fatto per “legarlo”.
Sembrano queste, oggi, le componenti predominanti che condizionano il progetto di costruzione dell’identità degli individui. Indirizzo verso la “territorialità” e la “sovranità” si potrebbe dire – usando termini filosofici coniati da Deleuze per esprimere un’accezione rafforzativa dell’idea di identità, ossia l’identità costruita soltanto sulla versante cosciente dell’Io, sulla delimitazione dei confini tra il Sé e l’Altro, sulla celebrazione della memoria personale, del presente da tenere in pugno e su un progetto individuale mirato al futuro. L’identità come lavoro autoriflessivo e autocosciente dell’individuo, che restringe esclusivamente a questo orizzonte la possibilità di definizione del Sé. Questa impostazione parziale è uguale e contraria all’opzione rivolta al versante del desiderio e della libertà come onnipotenza, che dominava nella società nei decenni precedenti a questo inizio di millennio. E’ un’opzione presa ugualmente nella morsa del narcisismo, ma concentrata soprattutto sull’autoedificazione artificiosa dell’Io a discapito del confronto con l’alterità. I fenomeni di fondamentalismo religioso, di ritorno del nazionalismo, e di rivendicazione estensiva e frammentata della propria identità da parte delle minoranze, o di varie forme di minoranza; gli eccessi di localismo, di leghismo e di rifondazione esclusiva del sociale sulle radici delle tradizioni: questa serie di fenomeni sociali configurano una visione della questione dell’identità molto regressiva. Rispecchiano peraltro idee che si rifanno tanto alla concezione moderna “solida” dell’identità, quanto a concezioni pre-moderne (non siamo usciti dal tribalismo, e non siamo nemmeno usciti dalla mitopoiesi). Quasi tutte però condividono un tratto comune di affermazione dell’identità come il prodotto di un modello ideale che le predetermini e ne descriva la soluzione. Sembra dunque essersi indirizzata in un senso introverso, autoritario e subordinante la declinazione della identità. Benché già presente negli anni Ottanta, e dilatata gradualmente negli anni Novanta, con l’emersione chiara e netta dei Nazionalismi e dei fondamentalismi religiosi, questa posizione ha assunto oggi una predominanza quasi totale.
Vista più in profondità, la situazione che oggi si prospetta sulla scacchiera dei pretendenti evidenzia un forte assottigliamento della schiera di coloro che possono vedere soddisfatti i propri desideri in virtù dei mezzi e delle risorse di cui dispongono, poiché sono queste ultime ad essersi ridotte. Per giunta, si è anche ristretta la possibilità di realizzare una identità mediante l’adozione di una pratica della dissolvenza. Si è invece ancor più accresciuta la schiera di coloro che vivono la frustrazione dei propri desideri. E’ diventata più consistente la loro condizione di povertà. L’identità che avevano persa o che era stata loro negata continua a rimanere tale, con un accrescimento delle difficoltà per potersela costruire. Tra le poche possibilità di salvezza rimane l’aggregazione a disegni comunitari e sociali improntati su un concetto molto forte di appartenenza. Ma in questa soluzione esiste un controeffetto negativo: il sacrificio della libertà. E’ un rischio che, per molti versi, li porta ad accomunarsi a coloro che decidono di passare il confine della legalità, ponendosi in una zona al limite, dove convivono con i più agguerriti e violenti, i più pretenziosi e i meno facili da individuare, e che hanno adottato, più di chiunque altro, la tecnica dell’agguato nella caccia alle occasioni di soddisfacimento del desiderio.
Per gli altri individui della collettività, quelli temperati, anch’essi animati da un potente flusso di desideri, la soddisfazione e la realizzazione di sé si traduce ancora in insoddisfazione e frustrazione, con conseguenti rischi di caduta in strati sociali di emarginazione ed esclusione. Per costoro si rende sempre più necessario dosare attentamente le risorse e le aspirazioni alla soddisfazione dei desideri seguendo un vigile criterio di rinuncia e autocontrollo. Ed è proprio questo punto intermedio della scacchiera che oggi è diventato il più critico e più carico di sentimenti luttuosi.
A questo punto, per concludere, come si potrebbe definire l’identità contemporanea? Come potremmo registrarla? All’inizio delle nostre considerazioni avevamo fatto cenno ad una predominanza, nei decenni precedenti il nuovo millennio, ad una prevalenza dell’identità narcisista a carattere onnipotente, ossia ad una identità borderline degli individui. Limitati nella capacità di governare gli impulsi e di produrre modi relazionali e sentimenti di tipo sociale. Facili a sconfinare nell’irrazionale, a costruirsi l’identità in modo piuttosto ibrido, ricorrendo spesso a strutture arcaiche. Individui governati dalla hybris, cioè da un senso di potenza che spinge a travalicare la misura. Quindi identità dai confini fragili e instabili, con una confusa consapevolezza degli opposti. E se è concesso un ultimo rinvio alla grande metafora delle merci (ricordando l’associazione di Freud tra danaro, oro ed escrementi), un individuo assediato da una nevrosi di dilapidazione dell’oggetto prezioso, o di facile perdita e smarrimento.
L’individuo contemporaneo è invece un narcisista involuto, un narcisista più regredito del precedente, e per certi versi più “puro”. Investe sul suo Io e solo sull’Io la potenza del desiderio e dei suoi impulsi. I suoi caratteri sono già compresi nel tipo borderline, ma a differenza di questo è più chiuso su di sé, poiché è agito da una scissione maggiore tra la sua parte cosciente e quella inconscia; pertanto è più propenso alla rimozione dei desideri e degli impulsi. Il narcisista attuale è assediato dalla nevrosi del possesso, è stretto nella dinamica dell’impossessamento dell’oggetto prezioso, di qualsiasi e pur minimo oggetto di valore. Un po’ feticista, sadico, paranoide, predisposto al moralismo, perfezionista (secondo una tipologia di soggetto ben descritta da Freud). Anziché dall’onnipotenza è governato dall’angoscia e dalla paura di impoverimento. Malinconico, febbrilmente malinconico, cerca un legame con il materno e ha bisogno di circondarsi di protezioni per sostenere il confronto con una realtà che avverte troppo pericolosa. Si sente inadeguato. E’ un individuo colto spesso dal panico, ha paura e respinge tutto ciò che si prospetta differente da sé, come sesso, come diversità culturale ed etnica, come evento inaspettato portatore di instabilità alla sua ordinaria vita quotidiana. A queste diversità da se stesso reagisce con l’opposizione, l’espulsione o il fagocitamento. Ma non è tanto un problema di difficoltà con l’alterità esterna che lo caratterizza; questo è solo il sintomo. Il vero problema è la sua difficoltà a vivere e decifrare le sue emozioni, a comprendere l’alterità che si muove dentro di sé come un magma vulcanico. Oltretutto è incapace di confessare a se stesso le verità che riesce a intravedere nel fondo della sua anima. Per questi motivi tende a rimuovere, e si aiuta investendo sulla parte più rigida della sua coscienza, quella meno disposta a scendere a patti e compromessi con le verità degne di considerazione. Per altri versi si aiuta costruendosi un sé grandioso, un sé idealizzato, un ideale territorio dominante, dolce come un seno materno, e allo stesso tempo sicuro come uno scudo paterno, in cui collocarsi o a cui aggrapparsi, affinché possa compensare un intimo stato di incertezza, di frammentazione e di instabilità (che il borderline, invece, cerca di superare mediante una deterritorializzazione, ossia la collocazione in uno stato limite- liminare di frontiera, cioè di espulsione della sua interiorità verso l’esteriorità, cercando alla fin fine di diventare grandioso).
Qual’è il culto preferito di questo nuovo individuo, così facile alla vanità e così attaccabile dal senso di futilità della sua vita, così permeato da un senso di invidia verso tutto ciò che gli sembra contenere una ricchezza, verso quanto che gli si offre allo sguardo come miraggio di un arricchimento? Il suo principale culto è diretto verso gli Eroi titanici. Fatica a diventarlo, ma vorrebbe tanto esserlo. Cerca anche una fede, qualsiasi fede, purché gli assicuri il confronto con un Dio con il quale identificarsi, e intrattenere un dialogo privato che conceda poco spazio al confronto con i propri simili.
In fondo, questo è il segno di una lotta segreta e nascosta. Una lotta interna che si qualifica anche come una ricerca. Una lotta/ricerca in rapporto alla figura del Padre.
E’ questo, probabilmente, il problema dominante che oggi stiamo tutti affrontando. E’ l’attraversamento di un difficile deserto, dal quale è necessario uscire in fretta e nel miglior modo possibile. Occorre farlo senza fughe o atti di forza, uscendo, semplicemente uscendo, come si può uscire da un mare tempestoso calcolando il giusto modo di tagliare le onde. Mettendo al lavoro la paura e l’angoscia. Facendo dello stato di minorità una ricchezza creativa, nel passaggio sperato dallo stato di individui a quello di persone

Michele Balice e Ferdinando Gasparini ©

Note:

1 Per una visione complessiva del periodo compreso tra gli anni Ottanta e il primo decennio del Duemila, teniamo a segnalare, tra la vasta bibliografia presente sull’argomento:
per gli anni Ottanta: Jean Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1979); Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979 (ed. or. 1976); Christopher Lasch, L’io minimo, Feltrinelli, Milano 2004 (1 ed. 1985) (ed. or. 1984); AA.VV, Sentimenti dell’aldiquà. Opportunismo paura cinismo nell’età del disincanto, Teoria, Roma-Napoli 1990; Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989; Gianni Vattimo, Filosofia del presente, Garzanti, Milano 1990; AA. VV. Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; AA.VV. Moderno e post-moderno, Feltrinelli, Milano 1987; Fredric Jameson, Il postmoderno, Garzanti, Milano 1989 (ed. or. 1984);
per gli anni Novanta: Michel Maffesoli, Il tempo delle tribù, Guerini e associati, Milano 2004 (ed. or. 2000), M. Maffesoli, L’istante eterno, Luca Sassella ed., Roma 2003 (ed. or. 2000), M. Maffesoli, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Franco Angeli, Milano 2000 (ed. or. 1997), Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000 (ed. or. 1999), Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2002 (ed. or. 2000), Z. Bauman, Dentro la globalizzazzione, Laterza, Bari 2001 (ed. or. 1998), Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 2000), Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001 (ed or 2000); Gerd Baumann, L’enigma multiculturale, Il Mulino, Bologna 2003 (ed. or. 1999); Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001; Michael Hardt, Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002 (ed. or. 2000); Giandomenico Amendola, La città postmoderna, Laterza, Bari 1997; Marc Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano 1993 (ed. or. 1992); Carlo Tullio Altan,Ethnos e civiltà, Feltrinelli, Milano 1995;
per il Duemila; Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza, Bari 2006 (ed. or. 2005), Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Bari 2005 (ed. or. 2004), Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Bari 2003 (ed. or. 2002); Jean Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano 2002 (ed. or. 2002); Massimo Ilardi, Il tramonto e i non-luoghi, Melteni, Roma 2007; Paul Virilio, Città panico, Raffaello Cortina, Milano 2004 (ed. or. 2004); AA. VV., Le parole del 2005, Diario di Repubblica, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2005; Alessandro Baricco, I Barbari, La Biblioteca di Repubblica- Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2006; Mario Perniola,Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004;
* per una visione diacronica: Ulrich Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003 (miscellanea: ed. or. 1998-2002); Il libro dei trent’anni La Repubblica 1976/2006, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2006; Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009. 

2 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito (1903), a cura di Paolo Jedlowski, Armando editore, Roma 1995, p. 54.