Relazione al Congresso ” La depressione: aspetti psicologici e psicodinamici”, Torino, 16 ottobre 2004 

Nessun uomo dovrebbe vivere senza aver sperimentato almeno una volta
la sana anche se noiosa solitudine di una dimora tra i boschi,
scoprire di dover dipendere solo da se stessi,
e per questo tirar fuori la vera forza interiore.

J. Kerouac

Premessa

Spesso ci facciamo domande alle quali non troveremo mai risposta. Ci immaginiamo un futuro che non c’è. Cerchiamo di prevedere cosa, come, quando si modificherà la nostra vita. Ci costruiamo un’immagine possibile del futuro. È un atto normale, spontaneo, tipico degli esseri umani. È un gesto semplice che ci aiuta a vivere e a sognare. Chi di noi non l’ha fatto? Eppure, a ben guardare, nel nostro sognare e l’immaginare un futuro possibile, compiamo un’azione importante: elaboriamo le piccole perdite quotidiane.
Dentro di noi siamo perfettamente consapevoli dei lenti cambiamenti imposti dalla vita. I capelli s’incanutiscono e gli occhi vedono di meno. Cambia il modo d’interpretare la vita ed ogni piccolo evento costruisce dentro di noi una nuova percezione della stessa. La speranza, perché ognuno di noi ne ha una, è di vivere “meglio”, se così si può dire. Avanti allora… cambiamo, cambiamo, cambiamo e così… perdiamo, perdiamo, perdiamo.
È un paradosso? No, assolutamente no. Tutte le volte che conquistiamo qualcosa di nuovo, una piccola parte se ne va. Ci rimane il ricordo, così come il senso di separazione e di perdita. È un dato comune ed ineliminabile per tutti gli esseri umani. Ma, se è così per tutti, perché la persona sta male quando è consapevole della perdita costante e continua legata alla vita?
Forse è perché non ci si rende conto che nessuno di noi perde realmente qualcosa. Rimane sempre qualcosa dentro, ma questo qualcosa si è modificato. Dentro di noi conserviamo l’immagine della relazione vissuta ciò che la gente comune chiama “ricordo”. Così il ricordo è il piccolo spazio occupato dagli eventi della vita e deposto nei luoghi inaccessibili della mente.
Certi ricordi appaiono belli alla memoria. Altri meno, ci fanno ancora soffrire. Così il ricordo attiva una sensazione cui noi diamo un colore e nella quale viviamo un’emozione. Dentro di noi conserviamo l’immagine della relazione, anche quando l’oblio ci ha fatto perdere gli avvenimenti.
Effettivamente, le emozioni e le esperienze emotive non sì perdono mai, ma rimangono sopite nell’attesa di potersi esprimere.
Alcune persone tuttavia non sono in grado di lasciare all’oblio i ricordi: l’evento che ha generato la sensazione rimane presente alla coscienza e, nel loro agire quotidiano, non possono fare a meno di rivivere e di esprimere quelle sensazioni. E questa situazione, ironia della sorte, si mantiene attiva anche in assenza dell’evento reale. Ci troviamo di fronte ad uno stato dove la persona continua a parlare dell’evento come se (ed il “come se…” è una “life motive” di molti soggetti) il tempo si fosse fermato. Ora, nell’inconscio degli uomini, il tempo è una dimensione che non esiste. Percepiamo indifferentemente dagli anni passati emozioni, amori e passioni con lo stesso vigore di quando eravamo bambini, ma non sono costantemente presenti alla coscienza, lo sono solo in alcuni momenti della vita: in altre parole, l’uomo ha la possibilità di staccarsi da alcune rappresentazioni interne per dedicarsi alle proprie attività vitali.
Non tutti i ricordi, dicevamo prima, si possono mettere da parte. Alcuni d’essi sono così carichi d’affetto che spontaneamente ed in modo del tutto inconsapevole, si presentano ripetutamente alla coscienza del soggetto. La forza di quest’azione è, per alcuni, così potente da far pensare ad una maledizione.
Da un punto di vista psicologico sosteniamo che la forza di queste immagini è insita nei traumi subiti dal soggetto. Un’emozione intensa, quando non si esprime perché l’oggetto-meta non era disponibile, rimane latente, sempre alla ricerca di una strada da seguire. Questa è la vera maledizione dei conflitti psichici: non si fermano mai per tutta la vita. Troviamo per essi una forma d’espressione accettabile dall’io, in mediazione con il principio di realtà o ci tortureranno per tutta l’esistenza.
È questa la condanna del genere umano, obbligato a sopportare la frustrazione di non poter soddisfare, in modo semplice e diretto, le proprie esigenze intime.
Quest’aspetto, tuttavia, è comune a tutti. La vera differenza consiste nella capacità del soggetto di gestire le tensioni interne.
Per alcune persone la perdita equivale ad una disgregazione interna. L’io, nella sua intimità, frammentato e non sufficientemente forte da riconoscere se stesso come oggetto completo, cerca nell’altro la propria integrazione. La percezione del vuoto interno è vissuta in modo drammatico ed il ricordo di un evento ormai passato, non riesce a sostituirsi al trauma. L’individuo continua a relazionare con l’immagine della situazione. La mantiene immutata nel tempo della propria mente, nel tentativo disperato di negare il trauma della separazione o della perdita. Non sempre le perdite sono legate ad avvenimenti reali: molto spesso ci troviamo di fronte a soggetti i cui sentimenti di perdita sono dei vissuti che non hanno una relazione oggettiva con la situazione. Vi lascio supporre su quali basi si costruisce una relazione affettiva con l’altro.
Un trauma è dunque una situazione di disequilibrio psichico generato dalla struttura interna e dalle situazioni esterne che fungono da attivatori delle patologie.
Un particolare disequilibrio psichico si esprime nei vissuti depressivi nei quali il sentimento di perdita, d’incapacità, di negazione e d’inadeguatezza costituiscono la base della relazione con il proprio sé.

La relazione con l’immagine

L’immagine esprime la forma sensibile della relazione con l’oggetto (sia esso una persona, un oggetto od una situazione). Rappresenta la fotografia mentale di una situazione vissuta, sperimentata e per questo interiorizzata. Attraverso l’immagine si mantiene la relazione con l’altro e la libera circolazione d’energia: possiamo in pratica esprimere gli affetti. È grazie ad essa che possiamo vivere i rapporti sociali, stabilire relazioni e muoverci nel mondo. Non solo, grazie all’immagine noi costruiamo le nostre relazioni interne.
È facile pensare come noi esseri umani costruiamo le relazioni. In senso dinamico ogni qual volta sperimentiamo una situazione, sperimentiamo un vissuto interno: un vissuto che inevitabilmente genera un sentimento, un affetto. Se le cose vanno bene, possiamo far circolare liberamente l’energia psichica nella relazione, ma se ciò non accade viviamo un’intensa situazione di disagio ed entriamo in conflitto con la realtà. Il trauma rappresenta appunto l’impossibilità di veicolare in modo diretto un’esigenza nata dalla parte profonda della mente, quella che sfugge all’attenzione della coscienza, poiché incompatibile con il principio di realtà.
Siamo così in una situazione di frustrazione per altro assai comune al genere umano.
Da questo punto in poi, la regolazione della relazione avverrà attraverso i meccanismi difensivi di ognuno e dalle fissazioni energetiche, vale a dire la forma delle esperienze che hanno tessuto la trama relazionale dello psichismo soggettivo definendo, così, il contenuto e l’intonazione affettiva della relazione. Il soggetto inizierà a vivere secondo schemi funzionali al proprio inconscio, realizzando attività finalizzate alla riduzione delle tensioni interne.
Il meccanismo della coazione a ripetere si regge appunto sulla possibilità di elaborare l’immagine interna, a volte inconscia, del conflitto psichico, partecipando in modo dinamico alla costruzione della vita umana e sociale.
Per entrare nello specifico dello stato depressivo, l’osservatore esterno riconoscerà nella depressione un particolare modo di vivere la relazione con l’immagine.
Il senso comune è ormai sviluppato per tutti e, quindi, siamo in grado di riconoscere un soggetto depresso: osservandolo, ne riconosciamo la perdita d’interesse alle cose della vita, sembra gravato da un penoso senso di vuoto e di prostrazione psichica, ha difficoltà a costruire relazioni. Inoltre, possiamo proprio sostenere che la sua capacità di costruire relazioni si è notevolmente ridotta, ha perso qualcosa. Le persone depresse hanno perso la relazione con l’altro e non importa quanto l’evento sia vero o presunto: loro ne sentono la mancanza.
A queste persone, tuttavia, va riconosciuta l’ironia del destino: spesso non hanno la rappresentazione conscia della perdita. Esse vivono un affetto e un sentimento senza poter dare una forma all’emozione. È certamente una situazione di conflitto inconscio manifestato per lo più da un sentimento penoso. Un conflitto sostenuto dall’immagine interna che ha perso la sua capacità d’essere rappresentata in una forma, per questo si dice inconscia, dove però il sentimento, l’affetto, s’impone alla coscienza spesso in modo devastante.
In senso psicoanalitico, nello psichismo delle persone avviene un’operazione complessa: l’io del soggetto, non essendo in grado di reggere il distacco e quindi la perdita della relazione, compie un’operazione d’aggiustamento. Per mantenere l’integrità psichica, l’io mantiene, in modo coatto, il rapporto con l’immagine rappresentante della relazione oggettuale e la arricchisce dei sentimenti connaturati alla perdita. Con un meccanismo di deflessione della realtà, tratta l’immagine come reale, riversando su di essa le proprie spinte vitali. Alla fine tratta se stesso come vorrebbe trattare l’altro, procurandosi tutte le sensazioni descritte in precedenza.
Il conflitto interno è, quindi, primariamente legato all’istanza dell’io e del super-io, in relazione alla situazione generata dall’immagine inconscia. L’immagine alimenta le spinte co-pulsionali interne ed i meccanismi difensivi soggettivi gestiti dall’io e dalla morale del super-io, che ne regolano gli esiti.
La depressione è, pertanto, una malattia che insorge quando si profila una situazione di perdita avvertita come traumatica. Di fatto la persona allucina la presenza dell’oggetto facendo transitare l’angoscia interna nelle manifestazioni psicosomatiche della depressione: ciò, è reso possibile dal terreno psichico del soggetto, nel quale le matrici relazionali di tipo masochistico sono massicciamente presenti.

La relazione oggettuale

La relazione oggettuale esprime l’interazione che avviene tra il soggetto ed un oggetto esterno, sia esso persona o situazione. Nella dimensione più intima esprime il legame economico, spesso inconscio, che il soggetto stabilisce con gli oggetti esterni. Definisce, nella sua essenza, il particolare rapporto intrattenuto dal soggetto con il mondo esterno e, sulla base dei processi d’influenzamento reciproco, dà forma e qualità alla relazione stessa.
È così importante per la vita dell’uomo che una piccola alterazione di questa capacità compromette l’equilibrio psichico del soggetto, poiché è nell’altro e con l’altro che costruiamo la nostra esistenza.
Durante lo sviluppo psichico, il soggetto instaura la relazione oggettuale in rapporto a due indirizzi interni. Nel descrivere queste scelte, Freud riconosce una direzione di tipo “anaclitica” e l’altra detta “narcisistica”. La scelta oggettuale “anaclitica” rimanda al modello di relazione sperimentato con le persone o le situazioni importanti della vita, di norma i genitori e l’ambiente infantile. Diversamente, quando il soggetto organizza la propria vita oggettuale avendo unicamente a modello la relazione con se stesso, lo schema d’azione è di tipo “narcisistico”.
I soggetti molto orientati da scelte oggettuali di tipo narcisistico, spesso cadono in uno stato depressivo. La ricerca dell’altro, avendo sé come riferimento, racconta di un individuo incapace di costruire una relazione oggettuale autentica ed adulta. L’individuo non organizza la relazione in base ad un rapporto di reciprocità ma vive l’altro come un prolungamento di sé, dal quale poi dipende e ne è fortemente condizionato.
I depressi sono persone nelle quali il legame con l’oggetto è d’assoluta importanza. Non hanno un particolare bisogno d’amore, quanto della conferma generale del loro legame con il mondo oggettivo. Si attaccano morbosamente alle persone o alle situazioni nella speranza di trovare sicurezza e protezione. Sono davvero “incollati” ai loro oggetti ed hanno una folle paura di perderli.
L’oggetto per il depresso ha uno scopo definito. Nei momenti di maggiore difficoltà svolge il ruolo di protettore e soccorritore ed è utilizzato esclusivamente per soddisfare il bisogno di “dipendenza”.
La perdita, qualora dovesse paventarsi, è vissuta in modo drammatico e non solo perché vi è il rischio di perdere un rapporto bensì perché, nella separazione, una parte di sé viene a mancare.
La dipendenza dall’oggetto genera così una forte ambivalenza. Sospinto dal desiderio d’amore, la perdita rimane un pericolo sempre attuale. Così, se da una parte l’identificazione all’oggetto porta alla regressione per integrare l’io frammentato, dall’altra il senso della perdita veicola un intenso comportamento aggressivo. L’oggetto interno, frutto dell’identificazione, diventa in questo modo l’oggetto bersaglio su cui agire l’aggressività, alimentando il senso di colpa ed il desiderio di morte.

La vulnerabilità depressiva

Dietro al comportamento della persona depressa troviamo spesso una ridotta capacità del soggetto a tollerare il cambiamento, vissuto come negativo e, più spesso, come pericoloso.
L’affetto della perdita, ingenerato dal collocare se stessi in una situazione nuova, presuppone la capacità di tollerare la frustrazione di dover lasciare andare qualcosa cui si è molto legati e da cui si dipende profondamente. Poco importa se l’evento sia reale o fantasmatico-interno), l’affetto percepito è assolutamente identico.
La dipendenza dall’amore dell’altro vincola i sentimenti della persona e palesa le difficoltà d’integrazione di sé. Avvia il processo d’elaborazione del lutto, sviluppando inizialmente stupore, incredulità, risentimento, angoscia, per diventare in seguito atteggiamento depresso. L’elemento psichico dell’angoscia generato da questa situazione subisce una trasformazione, per diventare manifestazione somatica della perdita.
Quest’operazione si struttura in modo del tutto inconscio nella psiche del soggetto. Le determinanti costituzionali quali il terreno psichico soggettivo, gli aspetti filogenetico ereditati e le parti ontogenetiche manifeste nelle diverse situazioni di vita sociale, costituiscono l’elemento decisivo alla strutturazione dei meccanismi difensivi elementari dell’uomo e dello sviluppo delle patologie future. L’ambiente di vita diventa, oltre le caratteristiche intrinseche del soggetto, la condizione fondamentale nella quale gli aspetti depressi troveranno manifestazione.
Le cause, se d’inizi si può parlare, si possono riconoscere nella necessità d’amore del soggetto e nella responsabilità assegnata all’altro della propria autonomia psichica. Individui con queste caratteristiche fondano la sicurezza di sé sul riconoscimento, sulla stima, sul sostegno e sull’incoraggiamento ricevuto dall’altro. Quando lo perdono, il fallimento è sempre alle porte. Incapaci di affrontare la propria esistenza facendosi carico di “se stessi”, l’io sperimenta forti sentimenti di colpa. Le accuse e le critiche sono così dirette all’io che divetano bersaglio delle manchevolezze personali. Il senso ed il bisogno di punizione divengono un pensiero dominante. L’angoscia subisce una trasformazione e diventa visibilmente il comportamento autosvalutativo, autopunente e limitato della persona depressa: sembra addirittura che in questa condizione il soggetto costruisca l’integrazione psichica sui propri “successi mancati”.
L’uomo diventa il bambino della sua infanzia, dipendente dall’altro nel sostentamento emotivo e materiale. La regressione è sempre alle porte. Incapace di farsi carico della frustrazione si colpevolizza per la gratificazione mancata. Si “incolla” all’oggetto perduto diventandone il persecutore.
“Posso resistere a tutto fuorché alle tentazioni” recitava Oscar Wilde in un suo aforisma. La mancanza, quindi il “dover rinunciare”, sembra essere uno dei compiti più ardui nello sviluppo psichico dell’individuo. Così la ferula dell’educazione ha imposto ferite profonde nella trama delle relazioni psichiche umane e, non sempre, il senso di fallimento e di rinuncia definitiva si sono compensati nei rapporti con gli oggetti vitali.
Così come la ferita sanguina ed il dolore travolge, la depressione compensa. È un circolo vizioso poiché la depressione accresce i bisogni narcisistici i quali, a loro volta, aggravano i sintomi.
In sintesi è l’incapacità del soggetto a superare in modo integrato le diverse fasi dello sviluppo psico-affettivo a favorire le manifestazioni depresse, anche se va ricordato che non tutti coloro che vivono un lutto diventano depressi.

Il senso di colpa

In termini squisitamente psicodinamici, il senso di colpa rappresenta il motore stesso della depressione. È, in un certo qual modo, la risultante di un lavoro interno (processo di elaborazione) nel quale l’idea o la sensazione d’aver infranto, consciamente o no, delle regole portano a sperimentare questa sensazione penosa. Non è l’espressione di un dolore acuto, bensì l’eco di un disagio sottostante: un conflitto nel quale desideri contrapposti si sono scontrati nel campo di battaglia dell’inconscio.
Dal desiderio dell’oggetto e dall’impossibilità di possederlo e controllarlo nasce, dunque, il senso di colpa.
È sempre l’espressione di due tensioni contrapposte: “la ricerca di…” e, “l’impossibilità a…” Quando, le energie soggettive vengono a mancare e non è più possibile reiterare i tentativi inconsci di soddisfacimento, subentra lentamente il senso della perdita, dell’inadeguatezza, dell’incapacità. Si deprime letteralmente il sistema perché deve mantenere dentro la propria affettività ma la risultante è lo stallo: una situazione dove non si va da nessuna parte. Deprimere però non significa ridurre il quantum d’energia interna, semmai è il contrario. La tensione interna aumenta, i sentimenti d’odio per l’oggetto perduto sono rimossi alla coscienza e rivolti, grazie alla morale (super-io) all’io del soggetto che diventa, a questo punto, esso stesso bersaglio della propria aggressività inconscia. In tutto questo una buona dose di masochismo aiuta. L’io vive la colpa per la perdita subita. Riversa su di sé l’aggressività inconscia – cosa che riafferma una volta di più la necessità e l’attaccamento all’oggetto esterno – e si punisce diventando martire di se stesso. A ben guardare, i depressi si sentono spesso delle vittime. Chi è la vittima? Chi è il carnefice? Di certo il persecutore esiste. È l’immagine interiorizzata del rapporto diventato, esso stesso, il sostituto della relazione oggettuale o relazionale interrotta.
Oggi, e per ragioni d’onesta intellettuale, dovremmo recuperare l’affermazione di Freud trasformando l’immagine del termine senso di colpa in quella di “bisogno di punizione”. L’idea elementare e forse un po’ sciocca della nostra mente è che, se espio la colpa, poi la situazione si può riparare. Di fatto ciò non accade perché, nel soddisfare masochisticamente la colpa, riattiviamo la sofferenza, come il senso di perdita e d’impotenza del soggetto.
È penoso ma si ha proprio la sensazione di vedere un uomo mangiare senza saziarsi mai, dove la fame d’amore ed il vuoto onnipresente della mancanza formano i contraltari della persecutorietà della colpa.
Possiamo dire, a questo punto, quanto il persecutore aiuta il depresso a contenere l’angoscia interna. Vincolandola in un sintomo, la depressione appunto, l’energia psichica fluttuante si lega al persecutore e mantiene la relazione con l’oggetto. L’esito di questo lavoro si vede poi nei meccanismi di difesa utilizzati e dai quadri patologici evidenziati dalle persone.
Per ricordare, la depressione è uno stato psichico, qualificato da un abbassamento del tono affettivo ed emotivo. Causa un’importante caduta dell’autostima con sfiducia ed odio per il mancato soddisfacimento, si manifesta con la tendenza all’isolamento e con la mancanza d’incentivi e d’impegno per i compiti della vita, è convenzionalmente descritta all’interno di due quadri sintomatologici: la depressione endogena e la depressione reattiva.
Le cause della prima sono radicate nella storia onto e filogenetica dell’individuo. Ha un impatto importante perché fluttua inevitabilmente negli aspetti maniaco-depressivi. La perdurante tristezza, ma anche uno stato d’eccitazione alterato, accompagnata da idee di miseria, di colpa, agisce sul bisogno di punizione e d’espiazione. Fomenta la spersonalizzazione e la mancanza affettiva, sentita nell’intimo del soggetto.
Per la depressione reattiva, la situazione è più semplice. La persona mantiene un andamento ai limiti di uno stato comprensivo per la psicopatologia. L’umore melanconico, acuito da esperienze negative e dolorose, incide sui processi elaborativi del soggetto, ma limita in modo moderato la capacità vitale del soggetto poiché la possibilità intrinseca d’elaborare il lutto lo porterà a stabilire nuove relazioni e investimenti oggettuali.

Il suicidio

Nel promuovere il suicidio la malinconia vanta un gran privilegio. Condizionato da un turbamento mentale, il suicidio è riconosciuto come un atto strano, enigmatico, inesplicabile e contrario all’ordine naturale e sociale. È la reazione più rilevante di una condotta autodistruttiva d’ordine essenzialmente affettivo. Nella depressione i comportamenti tendenti al suicidio sono abbastanza rilevanti. Non esiste solo il suicidio fisico, ma anche quello psichico, causato dall’isolamento, dal rifiuto del contatto sociale, espressione della difficoltà a mantenere un rapporto con se stessi non tormentato dall’angoscia, dal senso di pena e dalla paura dell’attimo che seguirà l’attuale.
Tutti i depressi evidenziano, nella pratica clinica, idee di suicidio. Non tutti i potenziali “suicidi”, tuttavia, hanno realmente compiuto questo gesto estremo. Il passaggio dall’idea rappresentata del suicidio all’atto vero e proprio, presuppone una trasformazione psichica così importante da modificare la struttura relazionale del soggetto con la propria immagine di sé.
La forza di un tale atto nasce solo al termine di un percorso duro, sfiancante ed avvilente nel quale la percezione di sentimenti interni contrastanti, spesso vissuti come negativi e pericolosi, porta al crollo interno dell’autostima.
Il soggetto, quando si trova nelle relazioni vitali a doversi confrontare con la percezione di non possedere una base interna in grado di dargli sicurezze, non riesce più a dare un colore alla vita: è assolutamente acromatica o nera, come più spesso dichiarano le persone in analisi. In questa condizione ben presto il senso d’apatia e di nullità s’impadroniscono della persona fino a diventare disperazione.
Vivere questo sgomento impegna completamente la vita della persona poiché riverbera nelle note dell’inconscio, alimenta il fallimento attuale e di tutta l’esistenza. Pensare di “farsi fuori”, per usare una metafora, diventa allora molto più di un pensiero. Diventa un’idea, a volte assillante, una soluzione. Non reggendo più il contrasto con l’oggetto interno, la morte acquista il colore della pace, della tranquillità dal demone interno: il senso di colpa pervasivo ed angosciante.
La vita passata alle dipendenze emotive di altri spesso non lascia soluzione. Il suicidio diventa allora il gesto estremo nel quale il soggetto ricompone la propria integrità psichica, anche solo per un attimo, e rompe definitivamente la relazione con l’oggetto persecutore. Il depresso ricerca questo: vuole disperatamente riacquistare il potere della vita e della morte e lasciare un segno tangibile. Va da sé, l’atto è molto aggressivo, anche perché vi è l’idea di colpire gli altri attraverso la violenza rivolta alla propria persona.
Per semplificare, si potrebbe sostenere la veridicità di un’affermazione che spesso aleggia nei sentimenti delle persone depresse durante i lunghi monologhi dell’analisi. “Suicidandomi dimostro la tua incapacità ad accudirmi quindi se non puoi accudire me come persona globale, accudirai il ricordo di me”. Una nota a parte meriterebbe il “danno” subito dai familiari delle persone morte per suicidio.
La nota più patologica della situazione poi non è tanto il suicidio in quanto tale, spesso è un atto estremo più pensato che realizzato, quanto l’attaccamento alla sintomatologia depressa.
In molti casi di lavoro mi sono sentito dire: “Dottore mi ridia i miei sintomi, quelli li conosco” e sono persone socialmente integrate, ma la singolarità del depresso nel mantenere il legame, a questo punto libidico, con il sintomo è sorprendente.
“Sono io dottore che non voglio guarire”. “Ho permesso a mio marito di farmi tutto questo. Perché io non ho fatto nulla?”. “Ho la sensazione d’essere io a non voler stare bene”. “Ho perso il desiderio per tutto. Voglio solo stare nel mio angolo, come sulla sedia all’asilo”.
Le affermazioni, riportate dai quaderni di seduta, non sono incoraggianti. Hanno il sapore della rinuncia. Le persone però non smettono di tentare, anche se la direzione non è coerente con l’istinto di sopravvivenza.
L’impulso primario rimane la fuga. Vi è la necessità d’allontanarsi dai sensi di colpa, dalla pretesa inconscia d’essere responsabile della sofferenza altrui, dal peso di un’aggressività non accettata e per questo agita contro se stessi. La sensazione è il disastro interiore imminente causato dal senso di colpa dal quale non v’è via d’uscita.
Il complesso di colpevolezza-espiazione arriva al suicidio quando il sentimento diventa ingestibile ed i rimorsi alimentano senza sosta il conflitto intrapsichico.
In realtà l’atto non si realizza con una linearità di questo tipo. L’atto finale autodistruttivo si realizza unicamente quando il soggetto, per effetto della sofferenza, spesso lontana dalla coscienza ma non sempre, non riesce a mantenere la relazione di base minima al mantenimento della propria struttura psichica. L’investimento narcisistico sull’io s’impoverisce al punto da diventare esso stesso un oggetto tra gli oggetti, così da potersene liberare, esattamente come si farebbe con piatto rotto della dispensa.

Conclusioni

La depressione è oggi chiamata il male del secolo. Molte delle radici appartengono al mondo interiore del soggetto e poco hanno a che vedere con le condizioni di vita attuali. Le persone sembrano afflitte dalla vita. Gravate dal peso del quotidiano non trovano più il coraggio di fermarsi per ascoltare, per raccontare, per osservare se stessi e quel mondo infinito sconosciuto alla sfera della coscienza.
Le cure sono possibili. Non sono semplici. Soprattutto non rispondono ad una domanda di soluzione lineare. Le matrici inconsce della depressione si appoggiano ad un vissuto antico quanto il soggetto e si sono costruite per successive piccole lesioni psichiche. La bambina sulla sedia da sola all’asilo è solo un’immagine statica di un vissuto molto più grande. Oggi l’eziopatogenesi della depressione non concorre nella ricerca dell’evento, con la E maiuscola. Osservo più semplicemente una costellazione d’eventi caratterizzati da piccole e grandi perdite.
Le persone erano cariche d’energia ma non erano in grado di gestire un afflusso così cospicuo nella psiche, si sono viste costrette a mettere in atto i più elementari meccanismi di difesa. La negazione, la sistematizzazione dell’evento in un suo opposto sono solo un esempio delle difese inconsce attivate dalla mente.
Oggi tendiamo a razionalizzare tutto. Vorremmo una spiegazione per tutto ma com’è possibile spiegare un affetto se non lo viviamo? Ed allora la soluzione è di fermarsi ed analizzare gli affetti. Allora è necessario smembrare il puzzle nelle relazioni affettive perché, solo transitando attraverso l’abreazione dei propri conflitti psichici ci si può ricostruire.
L’obiettivo non è diventare felici, è vivere in coerenza con l’ambiente, sostenuti da una serenità interna in grado di reggere gli attacchi quotidiani. A volte in questo percorso le azioni sono combinate. La medicina aiuta. La psicologia aiuta. Ma l’unica cosa che non possono fare le scienze è il percorso: questo è solo di dominio dell’uomo. E, se esiste il libero arbitrio, in questo l’uomo lo può esprimere.

© Ambrogio Zaia