Sommario
Premessa
Nel corso della vita ogni uomo ha provato l’esperienza della solitudine, e quando l’ha confrontata con gli altri si è accorto che non ne esiste una sola.
Ognuno di noi ha un modo proprio di rappresentarsela, di viverla e perché no, d’immaginarsela. Esiste dunque una solitudine diversa per ognuno di noi? Io credo di sì, e, se spiegarla non è sempre facile, un tentativo è doveroso. Ho quindi utilizzato le parole del Piccolo Principe per tradurre le immagini in forma scritta. Ascoltiamolo.
“Dagli uomini”, disse il Piccolo Principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano” “E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”… “Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore “
(Saint-Exupéry, 1943, pag. 108).
Partendo dall’uomo, ritengo che queste parole esprimano la condizione umana d’oggi; proteso nel ricercare all’esterno i significati delle cose, non si rende conto che s’allontana sempre più dalla fonte originaria interiore. Con queste parole, il Piccolo Principe lancia un messaggio di ricerca ed indica la strada che vorrei percorrere con voi.
Perché parlare, dunque, della solitudine?
Se esiste una spiegazione essa può essere ricondotta alla natura della solitudine: essa tocca profondamente tutti gli uomini, è ineliminabile, ci accompagna per tutta la vita e, soprattutto, perché, per alcuni, i più fortunati, può diventare la strada della ricerca interiore.
Definizione di solitudine
Etimologicamente il termine solitudine rimanda alla parola “separare” composta da “se” e “parare”. La prima indica “divisone”, la seconda “parto”. Il termine solitudine rimanda alla separazione del nascituro dalla madre con la conseguente perdita di uno stato particolare. La stessa parola solitudine rammenta all’uomo la perdita che ha vissuto, in quanto ne rappresenta l’evento avvenuto. Nessuno può negare che sia un’autentica esperienza di vita vissuta.
L’uomo, oggi come ieri, è solo, con gli anni ha imparato a convivere con la solitudine, ma a quale sacrificio?
Le origini della solitudine
La solitudine, nonostante offra all’uomo innumerevoli opportunità per maturare e divenire un soggetto autonomo, è spesso ricettacolo di valenze negative. È una condizione spiacevole, a volte spaventevole, che spesso diventa un nemico da fuggire a qualsiasi costo. Tutto ciò visto come il risultato di un vivere caotico aggravato anche dall’eredità biblica, conseguenza delle azioni peccaminose compiute dall’individuo: perfino Adamo ed Eva perdono il paradiso celeste e sono condannati ad una vita di sofferenze e di dolore. Il dolore della perdita, della separazione.
La solitudine, dunque, esiste prima dell’uomo.
L’ovulo, al momento della fecondazione, è solo. Assunto il patrimonio genetico del partner, le reazioni fisico-chimiche dell’organismo separano l’ovulo dagli altri spermatozoi e lo isolano definitivamente dalla popolazione cellulare materna. È un organismo estraneo che conserva l’eco della madre e del padre. La fecondazione stessa è fautrice di separazione. A partire dalla quattordicesima settimana, l’embrione, che si chiamerà feto, è sperduto nell’oceano del ventre materno, è solo.
In futuro, la nascita, la crescita, l’adultità rievocano la solitudine originaria.
Socialmente, poi, la solitudine la riconosciamo con chiarezza.
Pensiamo ai milioni di bambini abbandonati nel mondo che vagano soli, senza una meta precisa.
I nostri vecchi, quanti sono abbandoni nell’anonima città?
Quante famiglie, sempre più estranei gli uni agli altri, vivono isolate nell’orrore della televisione?
Quanti ragazzi sono soli, nella prigione dorata del loro Walkman?
Quante persone, robotizzate dal lavoro, dalla spada di Damocle del licenziamento, della disoccupazione, sono costrette ad una solitudine forzata?
L’abbandono e dunque la solitudine, non risparmia nessuno. Dio stesso, essendo uno, è solo.
Alcuni aspetti della solitudine
La solitudine presenta moltissime sfaccettature: ve ne sono di forzate, in genere imposte dalle circostanze della vita, quali la prigionia, gli handicap e la malattia, l’isolamento percettivo o l’abbandono di una persona cara.
Vi sono poi solitudini volute e ricercate. Quelle del creativo, dell’asceta o di chi, nella quotidianità, sente il bisogno di ricercare un momento suo, per recuperare le energie disperse nel mondo, per ritrovare quella parte soffocata dall’affanno della vita, quando, invece, non è altro che una fuga dalle situazioni che non riesce a gestire.
Vi sono ancora solitudini imposte dalla società. I mezzi di comunicazione, i mass-media, gli slogan pubblicitari che invitano ad isolarsi, a distinguersi esprimendo modi di vita “unici” che accentuando l’individualismo. In realtà la meta proposta è solo illusoria, dato che è raggiungibile solo con comportamenti ed oggetti uguali per tutti. Questi messaggi, per loro natura contraddittori, alimentano la fuga e la ricerca di un rifugio che, visto come un luogo d’opposizione all’esterno, limita la crescita e lo sviluppo dell’autonomia individuale.
Gestire la solitudine
Le reazioni sono le più disparate e a volte le più paradossali. L’uomo contrappone alla solitudine un mondo costellato da relazioni, disseminato di immagini ed affastellato da azioni. Nel tentativo, perenne, di placare l’immagine della solitudine che si porta addosso come una seconda pelle, si procura le sofferenze e le gioie della vita. Sarà poi la sua natura profonda, o il terreno psicobiologico, a far pendere la bilancia da una parte piuttosto che dall’altra.
Per non ripetere l’esperienza della solitudine, l’uomo è disposto a tutto, anche alla guerra. È disposto addirittura ad abbandonare, per non sentirsi solo, ad uccidere, per non sentirsi morire dentro. Il continuo bisogno di potere, espresso da persone influenti o da intere nazioni, può essere letto come una reazione alla solitudine.
La solitudine contiene, quindi, sia la depressione sia la reazione, sia la fuga sia la ricerca e quando l’uomo riesce a contrapporre la disperazione della vita alla speranza le opere che realizza sono geniali.
La solitudine non essendo solo disperazione è speranza e forza, conquistata nel riconoscimento di una propria individualità. Esiste dunque una felicità nella solitudine.
La felicità della solitudine
Cercando d’individuare un percorso, si rende necessario rieducare le persone alla solitudine rendendola uno strumento che permette sia di realizzare un vero incontro, con il proprio sé, sia di far germogliare le emozioni che proviamo, leggiamo, sentiamo, compiamo ed inventiamo, sia di ridare valore al silenzio, come atto preparatorio al comunicare con gli altri.
Mi riferisco alla solitudine feconda che non può prescindere dalla relazione con l’altro, senza scadere in isolamento, poiché condurrebbe nell’estremo soggettivismo, nell’autosufficienza, nel rifiuto dell’altro come diverso da sé. Quest’ultimo aspetto è contrapposto al concetto di autonomia, intesa come capacità di distinguere tra sé e gli altri con chiarezza. La mente, in ogni caso, deve saper trovare da se stessa la propria felicità.
La solitudine forzata
Esistono dei casi in cui l’individuo non può sfuggire alla solitudine: benché la società tenti di deprezzarla, esistono delle condizioni in cui l’esterno impone alle persone la solitudine. In questo caso all’uomo non rimane altro che soccombervi o servirsene. Le segregazioni in celle d’isolamento, le prigionie di guerra, le privazioni o le limitazioni sensoriali, dovute ad esempio a certe malattie (cecità, sordità, interventi chirurgici deprivanti), sono solo alcuni esempi di solitudini forzate.
In alcuni casi, la solitudine forzata è diventata, per qualche personaggio della storia, la condizione che ha permesso l’espressione della fantasia. La creatività ha avuto l’opportunità di esprimersi, tant’è che alcune delle più grandi espressioni artistiche sono nate in condizioni d’isolamento. Dostoevskij, trovando in sé risorse spirituali che gli permisero di sopportare la prigionia, scrisse memorabili opere. Beethoven, la cui sordità l’ha portato ad isolarsi dal mondo, ha potuto sviluppare una grande sensibilità interiore, le sue opere più belle hanno visto la luce nel silenzio.
La creatività, come modo per esprimere un mondo interno, non è solo prerogativa degli artisti, si può ritrovarla negli hobbies, talora unici, delle persone comuni, come mezzo per esprimere le proprie attitudini. Sono casi in cui “dal fango è potuto nascere un fiore di loto”.
La solitudine voluta
Si parla molto del desiderio e della paura della solitudine, poco della capacità d’essere soli. Durante il nostro sviluppo psicofisico, se non abbiamo subito dei traumi gravi, dall’infanzia ad oggi, abbiamo sperimentato, magari gradualmente, un essere soli anche in presenza dell’altro. La fiducia, costruita dentro di noi negli anni della crescita, ci ha permesso di controllare la solitudine di riconoscere i sentimenti che animano la parte profonda della nostra mente e di esprimerli.
La solitudine diviene, così, condizione privilegiata e da ricercarsi per aiutare l’individuo ad integrare i pensieri interni con i sentimenti. La meditazione, la preghiera e, a livello inconscio, il sonno operano questa trasformazione. Costruire un momento di solitudine e di silenzio aiuta la persona a ritrovare se stesso nell’oceano della vita. L’anelito di questo momento permette l’abbandono a qualcosa o qualcuno sopra di lui, in grado di dare significato alla vita, alle emozioni quotidiane ed al silenzio ricercato.
La solitudine, fuga o difesa?
Abbiamo visto che il saper star soli, rappresenta una preziosa risorsa. Permette agli uomini di entrare in contatto con i propri sentimenti più intimi, di riorganizzare le idee, di mutare atteggiamento. In alcuni casi, persino l’isolamento forzato può rappresentare un incentivo alla crescita dell’immaginazione creativa.
Esiste ancora una forma di solitudine, quella più semplice, di tutti i giorni, che si realizza come via di fuga dalla tensione della vita quotidiana. Alcune persone isolandosi riescono ad evitare un leggero stato di depressione o di apatia ed investono in creatività.
Si può arrivare ad affermare che questo tipo d’investimento permette una vera e propria fuga dalla malattia mentale. Osservate le persone dedite prevalentemente al lavoro, sembra che non ne possano fare a meno. A volte si ha addirittura l’impressione che siano drogate. Non vi è da stupirsi se appaiono avide di lavoro. Per loro, forse, l’incapacità di reggere le emozioni di una relazione umana alla pari, le spinge alla solitudine. Spesso queste persone appaiono fredde, distaccate e poco accattivanti, ma è solo una conseguenza, volta a mascherare la debolezza e la vulnerabilità verso gli altri.
Quale futuro nella solitudine?
Per concludere mi sono chiesto qual è il destino dell’uomo. Può uscire dalla solitudine?
Temo di no, anzi ne sono convinto, ma l’uomo vivendo in solitudine ha imparato a conviverci. Per quelli che non sono caduti nella disperazione la ricerca di vita, sia materiale sia spirituale, ha fornito una ragione per tentare, per vivere. Ognuno di noi, con le proprie capacità e con le proprie convinzioni, ha cercato una via e tracciato dei percorsi. Cercando di descriverli, ho riconosciuto quattro cammini. Non ritengo uno più meritevole di un altro, li interpreto, semmai, come dei tentativi, neutri se vogliamo, volti a recuperare una situazione di benessere, fortemente integrati nella complessità della vita.
ß Ho visto persone che hanno delegato a Dio la loro stessa vita, consapevoli che esiste una forza più grande dell’uomo, sempre disposta ad operare per la crescita umana. Sono le persone che all’apparenza soffrono meno della solitudine, per loro la fede, oltre che una guida alla vita, rappresenta un faro che non farà calare la notte nell’animo.
ß Ho visto persone che hanno percorso la via che dall’esterno porta al centro. Esercitando il controllo hanno percorso la via della disciplina, del proprio corpo, della propria mente. Sono persone che hanno trovato un equilibrio discreto nel rispetto delle norme, dei precetti morali e nel rispetto di sé e degli altri. Sono persone che soffrono molto le ingiustizie, perché queste le rendono sole.
ß Ho visto persone che avvertivano il bisogno di condividere con altri la propria solitudine, salvo poi soffrire della stessa quando si lasciano. Sono persone molto orientate alle relazioni esterne, amanti della vita sociale, ricevono calore e sostegno in gruppo.
ß Ho visto persone, infine, che hanno cercato di metabolizzare la solitudine. Utilizzando gli strumenti che la società e la cultura mettevano loro a disposizione, hanno tentato una ricerca: abbandonati i precetti religiosi, politici e sociali si sono messi in gioco intimamente elaborando le esperienze di vita vissuta, le debolezze e la forza, propria di ogni individuo. Sono persone che hanno fatto i conti con il proprio vuoto interiore, con la paura della morte e dell’abbandono. Sono persone che hanno affrontato un percorso di analisi profonda e che hanno avuto il coraggio di chiedere aiuto, consapevoli che metabolizzare la solitudine è un percorso di ricerca continuo, che dura tutta la vita e che spesso rievoca i grandi dolori vissuti.
Scusate in quest’ultimo punto mi sono divulgato, del resto lavoro con la sofferenza umana e, tra le poche consapevolezze vissute sulla mia pelle, so che dalla solitudine non si può uscire, ma si può assegnarle un significato.
Dentro il mio cuore ho una segreta speranza: visto che la solitudine traduce nei sentimenti la separazione da qualcosa o da qualcuno, vorrei poterla trasformare nel ricordo. Il ricordo di un’esperienza vissuta, esattamente come nel racconto del Piccolo Principe.
“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?”
“E’ una cosa da molto tempo dimenticata. Vuol dire creare dei legami…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“Comincio a capire”, disse il piccolo principe. “C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…”
…
Ma la volpe ritornò della sua idea:
“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni per esempio tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti!”.
“Che cos’è un rito?”(…)
“E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.”(…)
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “…piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“E’ vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“E’ certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.
(Saint-Exupéry, 1943).
© Ambrogio Zaia
Ambrogio Zaia, laureato in Pedagogia ed in Psicologia, svolge l’attività di psicologo e di psicoterapeuta.