Freud ha lungamente cercato l’origine dei traumi che rendono la vita delle persone un continuo ripetere eventi dolorosi immodificabili. Inizialmente li riteneva accaduti durante la prima infanzia, tanto difficili da elaborare da lasciare delle cicatrici psichiche mai ben rimarginate, pronte a riaprirsi a ogni sollecitazione successiva. Successivamente egli si volse alla storia dell’umanità per rintracciare antichi e ripetuti avvenimenti traumatici il cui effetto condizionerebbe la mente dell’uomo e la sua cultura dalla preistoria a oggi.

L’origine culturale dei contenuti dell’inconscio trova nella descrizione del fantasma psichico, operata da Freud intorno al 1915, una formulazione che modifica il concetto di trauma. Il fantasma è considerato una sorta di canovaccio inconscio, costruito con rappresentazioni ed affetti, nel quale ognuno organizza le proprie “variazioni sul tema”. Il dato reale, non più individuato nella storia del soggetto, viene dislocato nel passato dell’umanità. Per Freud esistevano alcuni fantasmi originari, come la castrazione, la madre fallica, il genitore combinato, la scena primaria, trasmessi in quanto tracce di eventi traumatici, da un passato preistorico in cui avevano avuto uno statuto di realtà. Nell’attualità della vita, gli scenari fantasmatici agirebbero come un mito fornendo al bambino una risposta alle grandi inquietudini circa la nascita, la distinzione tra i sessi, il sorgere della sessualità e così via: “Reputo che queste fantasie primarie – così vorrei chiamarle, senza dubbio insieme ad alcune altre – siano un patrimonio filogenetico. In esse l’individuo, scavalcando la propria esperienza, attinge all’esperienza della preistoria, là dove la propria storia è troppo rudimentale.” 1
Il fantasma passa di generazione in generazione senza essere riconosciuto e al suo interno il soggetto elabora in una forma mascherata il proprio conflitto psichico 2. Caratteristica di tale scenario è quella di veicolare solo ciò che non ha potuto essere trasmesso per via simbolica, non ha potuto essere pensato 3.
Nel cercare il punto di incontro tra realtà storica e nascita del fantasma, Freud e i pionieri della disciplina, Reik, Roheim, Rank, hanno spesso paragonato il pensiero dei selvaggi a quello dei nevrotici seguendo un modello evoluzionistico che tra l’altro prevedeva l’utilizzo clinico dei materiali etnografici. Oggi tale impostazione non rappresenta una buona forma di collaborazione con l’antropologia; al di là della incredibile fertilità dei loro lavori, il problema resta sempre di ordine metodologico: i materiali raccolti in contesti così differenti, come la clinica e l’etnologia, non sono mai sovrapponibili, poiché si riferiscono a realtà umane assai differenti, come l’inconscio degli individui e le elaborazioni consce dei gruppi umani.
Tuttavia, se rinunciamo a interpretare i dati della cultura come se fossero produzioni di una persona in carne e ossa, possiamo avvicinare certi materiali seguendo l’idea freudiana del fantasma originario, ovvero di una serie associativa stabile che passa da una generazione all’altra e ripropone gli enigmi di sempre. Tra questi, quelli relativi alla generazione hanno avuto una tale importanza da creare una infinita varietà di miti, leggende, teorie scientifiche, che ancora oggi condizionano il nostro modo di avvicinarci alle faccende che riguardano la riproduzione e la nascita, basti pensare alle attuali polemiche sulla clonazione.
Uno in particolare mi sembra possa esemplificare il concetto di fantasma originario: lo chiamerò il desiderio di partenogenesi.
La partenogenesi è una modalità di riproduzione sessuata, tipica di alcuni invertebrati e di certe piante, in cui l’uovo si sviluppa senza fecondazione. Una forma di riproduzione che non richiede l’intervento di due genitori pur dando origine a esseri maschili o femminili. Lasciamo perdere l’aspetto biologico della faccenda e vediamo quante tracce possiamo rinvenire, sin dal mondo classico, di una inquietudine relativa al ruolo del maschio e della femmina della generazione.
Il pensiero greco ha prodotto una profonda riflessione sul rapporto – e sul conflitto – tra forma e materia. Questo si riflette anche nella distinzione tra i generi: i presocratici consideravano maschio e femmina portatori ambedue nella procreazione di un seme contenente informazione. La femmina, oltre al seme, produce anche la sostanza che nutre il feto e, come le piante, è pensata dotata di tutti gli attributi necessari alla generazione. Una sorta di materna totalità vegetale che apre le porte del mito a una antica immagine femminile, una “mitica fecondità spontanea, senza aratura e senza coito, della terra madre”. 4
Molti dubbi e incertezze sulle differenze anatomiche rivelano la presenza di svariate credenze sulla riproduzione di tipo partenogenetico. Alcuni ritengono che tutti i pesci siano femmine, altri che lo sperma del maschio venga divorato dalla femmina e passi così dallo stomaco all’utero, e così via.
Anche Democrito considera possibile una generazione esclusivamente femminile ma la sua teoria viene definitivamente superata da Aristotele, il quale, pur ammettendo l’esistenza della partenogenesi, ne dà una diversa interpretazione collocando la riproduzione asessuata a metà strada tra il vegetale e l’animale. Egli definisce il maschile come il genere della forma e il femminile come quello della sostanza. Nella generazione, l’uomo con il suo seme dà forma e anima a una materia femminile informe. E’ dunque l’uomo, secondo tale concezione, a riprodurre la forma umana, quella specifica di un gruppo familiare, nonché quella propria di un individuo, ma tale generazione non trasmette perfettamente l’identità perché si modella su una materia prodotta dalla donna che inserisce un fattore di cambiamento nella riproduzione. Nello sforzo di distinguere i generi e separare forma e materia, Aristotele giunge a considerare il genere maschile come la accezione più perfetta della vita animale e quello femminile come il genere prossimo alla vita vegetale, dove la forma tende a confondersi con la materia. I vegetali sono infatti meno distinti, ad esempio, sono ermafroditi ed anche certe specie animali condividono questa confusione: le femmine di alcune specie di pesci e uccelli possono generare spontaneamente, ma il loro prodotto è sterile perché le uova sono formate senza il contributo del maschio. Questa forma di riproduzione è ritenuta avvenire in alcuni animali quando la femmina è colta dal desiderio del coito, ad esempio, nel sentire il canto del maschio, e non potendo soddisfarlo depone comunque le uova.
Ne emerge una rappresentazione di fecondità spontanea così potente da distaccarsi dal mondo animale e raggiungere nuovamente il campo del mito e della speculazione medica.
Per molti secoli dopo Aristotele si discuterà dell’esistenza di specie animali o vegetali nelle quali le femmine partoriscono senza scambio con il maschio. In tali dibattiti l’idea di una riproduzione siffatta si estende anche al campo umano tramite diffuse credenze circa la capacità dell’immaginazione femminile di lasciare un’impronta concreta sul bambino in formazione. In esse, non si discute della necessita di due sessi nella fecondazione ma la potenza generatrice è spostata sulla potenza plasmatrice. In questo modo riprende l’antico dibattito su quale sia il sesso cui spetta l’azione di plasmare l’essere in formazione. Si confonde la distinzione aristotelica tra un maschile identificato alla forma e all’attività, in contrapposizione ad un femminile compreso nella materia e nella passività. Una vera e propria teoria scientifica dell’immaginazione spiega i parti mostruosi facendo ricorso al potere della mente sul corpo: la donna incinta impressiona il feto con ciò che i suoi sensi le trasmettono. Gli immaginionisti continuarono a discutere fino al 1800 trasmettendoci in forma mascherata l’arcaica rappresentazione di una femminilità potente e temibile, perennemente intenta a generare esseri mostruosi.
Per il mito, ricordiamo solo quello orfico che assegna a una dea, la Notte, l’origine del mondo. Fecondata dal vento, la Notte dalle grandi ali nere depose un immenso uovo d’argento nel grembo dell’oscurità. Dall’uovo dischiuso emerse Eros, il dio dell’amore che portò alla luce quanto nascosto nelle cavità della dea: il mondo intero.5
Il mito descrive un’immagine di potenza generativa nascosta nella cavità originaria, alla quale presto altri miti opporranno altre potenze generative, frutto dell’unione di maschio e femmina. Ma prima di giungere alla bisessualità, la mitologia sembra voler indugiare nella descrizione di possibilità fantastiche e delle loro conseguenze. Per esempio, si narra che Era, la legittima moglie di Zeus, irritata verso lo sposo, chiede a Flora, dea della vegetazione, un filtro per generare da sola e mette al mondo una serie di figli partenogenetici. Di questi, le femmine sono dolci e armoniose, poiché sono solo una copia della madre, mentre i maschi sono terribili: Ares, il dio della guerra, Tifone, signore dei venti che devastano, Efesto, deforme padrone della metallurgia. Il racconto sembra trasmettere la percezione di un limite invalicabile, oltre il quale guerra, catastrofi e disgrazie sorgono come figli terribili di un tentativo impossibile: generare da sé soli una creatura che non è uguale a chi l’ha partorita.
Un limite che sposta il conflitto tra i sessi al conflitto per la generazione e tiene a freno il desiderio di tornare indietro lungo l’evoluzione sessuata che distingue il mondo animale dal vegetale; tornare a una riproduzione autonoma e infinitamente uguale a se stessa, senza conflitto, senza cambiamento e senza futuro.

© Manuela Tartari

Note:

1 – S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, (1915) Opere complete, Boringhieri, Torino, 1976, pag. 526
2 – Cfr. S. Freud, Totem e tabù (1912)
3 – AAVV, Lo psichismo alla prova delle generazioni. Clinica del fantasma, Borla, Roma, 1997
4 – S. Campese, P. Manuli, G. Sissa, “Madre materia”, Boringhieri, Torino, 1983, pag.164
5 – Cfr. S. Vegetti Finzi, “Il bambino della notte”, Mondadori, Milano, 1990