Sommario
Ed ecco la grande bellezza in un tracciato di immagini in movimento. Ecco pennellate variegate della graduale ascesa verso l’unus, l’identità: il bello come percorso di ricerca, come processo di individuazione.
Quando compaiono sullo schermo le parole di Céline emergono subito riferimenti alla Persona, al trucco, all’immaginario, al viaggio della vita, alla morte.
La bellezza del coraggio
Nell’antichità, da Saffo a Tucidide, il bello era la pienezza, la compiutezza della buona forma; è bello ciò a cui non manca nulla, ciò che è integro, la conoscenza. Questo non è diverso dall’amare il combattimento in difesa della patria, perché sono entrambi atteggiamenti rivolti all’integrità, che implicano una finalità, un senso: è bello il coraggio a vivere solo se in funzione della patria. “Roma o morte”. Il turista giapponese incontra entrambe, mentre scatta foto, fa anima (Hillman, 1992), da una delle più venerabili terrazze del mondo. L’imprescindibile “rigore della morte” (Jung, 1914-30) serve a vederci chiaro e ad esaltare la vita. Un’esaltazione che diventa euforia maniacale nel mega-festino dionisiaco, dove una sovrapposizione serrata di musiche inconciliabili e ballerine sottovuoto svela l’eccesso nella sua totalità, riempiendo gli occhi dello spettatore di ogni sua declinazione. Ha proprio l’aspetto di una “overdose di immagini” che uccide l’immaginazione (Baudrillard, 1988). Con l’irrompere della dichiarazione “Auguri Jep, auguri Roma” abbiamo l’indizio che forse il protagonista e la città sono parti diverse della stessa sostanza. Jep potrebbe personificare l’individuale e Roma il collettivo, “dal passato similmente lungo e ricco, in cui niente di quel che una volta è esistito è andato perduto” (Freud, 1929). Il luogo dei contrasti: dal radiante viale di classe al marciapiede dalla decadente atmosfera, Roma è lussuosa, testarda, gentile, dolce e rude al tempo stesso. Il carattere eterno le permette di contenere aspetti conflittuali tra le sue antiche mura, è enorme abbastanza per essere contemporaneamente veleno e antidoto, rivelando la tipica enantiodromia dell’archetipo (Jung, 1934-54). Roma non sembra nascondere le sue ombre: le lascia emergere per mezzo dell’accecante opulenza.
La bellezza dell’innocenza
Jep è sdraiato sul letto; la trasposizione soffitto-mare-amaca lo proietta sull’incredibile balconata su Roma antica e l’inquadratura dondola dal Colosseo al giardino-mandala dove dei bambini giocano a rincorrersi con una suora. È una visione dell’innocenza. Il Puer non rappresenta solo l’infanzia dimenticata, “l’aspetto infantile preconscio dell’anima collettiva”; è anche “avvenire in potenza” (Jung, 1934-54), preannuncia un mutamento della personalità. Questo impulso all’autorealizzazione spesso si manifesta all’inizio del processo individuativo, ed è connesso con l’entelechia e la genesi del Sé. Raffigura la ghianda che già racchiude la quercia, il grande nel piccolo. Lo sguardo di Jep al gioco, al mondo intermedio transizionale (Winnicott, 1974) del fanciullo, compensa l’arroganza dell’unilateralità egoica della personalità.
Da questo momento una sequela di personaggi entra in scena: l’aspirante performer neo-azionista pseudo-masochista che parla in terza persona senza uno straccio di manifesto artistico, la nana, il venditore di giocattoli “oscuro”, il poeta muto “perché lui ascolta”, la borghese impegnata che accusa Roma di “collettivismo puro”, il misterioso personaggio del piano di sopra che fa “andare avanti il Paese”… .
Questi personaggi rappresentano parti della personalità individuale e al contempo le molteplici risposte collettive della civiltà al disagio. Si tratta dei lenitivi usati per sopportare una realtà troppo pesante, di cui sapientemente ci parla Freud: distrazioni come la natura e la scienza, soddisfazioni pulsionali sostitutive come l’arte, sostanze inebrianti che alterano il chimismo. E poi c’è la religione e/o il delirio. Tutte temporanee illusorie evasioni da Thànatos, per assecondare il principio di piacere e per nutrire il bisogno di appartenenza.
La bellezza-sensazione
Due passaggi particolarmente significativi sembrano il confronto con l’amico Romano e la ricca-di-professione Orietta. I due personaggi suggeriscono delle polarità complementari. Lui riflessivo, introverso, ipersensibile, dal temperamento saturnino permeato di insicurezze. Lei adornata di esteriorità.
La sensazione ha principalmente la funzione di percepire l’esterno per mezzo degli organi di senso; trasmettendo alla coscienza le alterazioni somatiche che ne derivano, è al contempo contaminata da elementi di sentimento. L’origine primitiva della funzione sensazione la rende istinto vitale, irrazionale e preponderante rispetto al pensiero e al sentimento. In un atteggiamento sensoriale dominante, che rimuove nell’inconscio l’intuizione (percezione interna), gli oggetti assumono un valore perché concreti e percepibili, sfruttati come “occasione di sensazioni” (Jung, 1921). Il godimento della bellezza offre un valido risarcimento al dolore, tuttavia non protegge del tutto dalle afflizioni della vita. Occorre infatti mantenere uno sguardo binoculare (Kalshed, 2013), con un occhio aperto, verso l’esterno, e l’altro chiuso, verso l’interno. Una vista univoca rivendicherà sempre il suo opposto attraverso il linguaggio dell’inconscio, alla ricerca della completezza di una rappresentabilità che viaggia su tutte e quattro le funzioni psichiche.
Jep non esita ad incoraggiare l’aspirazione di Romano di diventare un autore di teatro, motivandolo a dare fiducia e valore a sé stesso, senza sottomettersi al “fuori”, senza aspettare la benedizione della rigida donna alla quale si accompagna in ogni occasione. Fa qui eco il monito bukowskiano “se prima devi leggerlo a tua moglie o alla tua ragazza o al tuo ragazzo o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno, non sei pronto” (Bukowski, 2003).
Orietta invece è l’incontro con la vanità vacua, con la strumentalizzazione dell’esteriorità come scorciatoia. Nel dialogo con lei Jep usa inflazionati riferimenti all’apparenza: essere ricca è un “bellissimo lavoro”, essere bravi è triste, ma lei è “bella, molto molto bella”; affermerà poi, in un dialogo tra lui e Romano, che una “bella donna” alla sua età non è abbastanza. La bellezza non riguarda solo l’aisthesis, Jep non può accontentarsi del piacere prodotto dalla percezione sensibile della bellezza. L’integrazione del Sé riguarda la seconda metà della vita. Proprio a sessantacinque anni, davanti a tanta forma senza sostanza, il protagonista, vestito solo per metà, si immerge nel suo momento presente. Appoggiato alla finestra, quel panoramico punto di contatto fra dentro e fuori, Jep fuma, e, sublimando, innesca quel rituale tentativo di estrarre senso dalla materia.
“Noi non siamo mai più indifesi contro il dolore di quando amiamo, mai più disperatamente infelici di quando perdiamo l’oggetto amato o il suo amore” (Freud, 1929).
La narrazione trova un seguito sul Lungotevere. Il fiume esprime l’inarrestabilità della vita, duplica il mondo con il riflesso della sua acqua che “scorre sempre, cade sempre e muore ad ogni istante” (Bachelard, 1942). Vano è il simbolico tentativo sovversivo della città di arginare il fiume, perché il fiume, il destino, è inesorabile: Elisa, primo e unico amore di Jep, è morta. Suo marito si fa trovare sul pianerottolo, un luogo sociale che mette in comunicazione luoghi privati: il dolore per la perdita, profondamente individuale, è al tempo stesso un tema esistenziale universale. La ragazzina che si nasconde e non vuole essere scoperta getta il protagonista nell’anonimato dicendogli “tu sei nessuno”. Alla perdita dell’oggetto d’amore, il lutto risponde assorbendo tutte le energie dell’Io. Quel nessuno di sapore omerico fa precipitare Jep nel collettivo e scomparire nella confluenza, annullando la sua individualità. Questa è una tappa funzionale nella rielaborazione del lutto: nel provare dolore occorre sentirsi parte dell’umanità, simile a tutti gli esseri umani, di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
Il film si muove attraverso un assortimento di scene che consegna allo spettatore vissuti di estrema solitudine alternati ad una sforzata socievolezza-insocievole, quella delle serate in terrazza per esempio. Quando, in una di queste occasioni, le sentenze moraliste di Stefania-la-borghese diventano esagerate, la conversazione si fa esasperata e Jep la stronca: “invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci…con affetto. Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro. O no?”. L’attrazione-repulsione per lo stare in compagnia è evidente in questo conflitto che si consuma e si risolve nel serafico cinismo di Jep. “Ti saluto Céline… Céline… figlio d’un cane… noi sopportiamo il peso del tempo… ma ne ridiamo… qualche volta” (Bukowski, 1997). La morte di Elisa rappresenta un passaggio psicologico dalla perdita di una parte di sé legata al passato alla piena consapevolezza del tempo che passa. “Mi sento vecchio”, confida Jep a Ramona, nel Night Club.
La bellezza Kairòs
La bellezza è ciò che accade a tempo debito. “Bonne nuit!”. Uno dei momenti più preziosi è l’incontro animoso, fugace, imprevedibile, tra Jep e M.me Ardant nella città di notte, sulle scale. Questa breve ma intensa coniuctio con la controparte femminile assorbe tutta la tensione dell’Ombra del Night Club trasformandola in incontaminata energia estetica dell’attimo immenso, il momento fuggente, l’istante opportuno, il momento magico. Oltre la mera diretta sensazione, qui la bellezza vuole alludere a ciò che non c’è, rimandare a ciò che non è visibile nell’immediato, all’opportunità. L’armonia creata dall’unione degli opposti, infatti, resta celata e, per certi versi, insondabile.
La bellezza dell’amore e la bellezza di morte
Tra Jep e Ramona nasce una relazione d’amore. La bellezza è qualcosa che invoca a sé, chiama a valicare un limite. Dal bello siamo convocati e il complice di questo richiamo è Eros. L’energia amorosa spinge a cercare l’altra metà che completa, rispondendo ad un’esigenza di risanamento. La chimica amorosa fa sì che gli amanti si vedano “belli” reciprocamente. Questo è il dono dell’amore: poter sperimentare la bellezza a prescindere dall’apparenza concreta (S. Lobb, Amendt-Lyon, 2003).
Il disarmante salone della chirurgia estetica ospita il tentativo accanito di controllare, modificare, superare la natura (vero Sé), abusando dell’iper-technè, secondo i dettami di una cultura tecnologica che produce un corpo artificiale (falso-sé), facendolo sparire nell’Ade. Persefone trova la bellezza eterna, ma è una bellezza di morte, sterile e frigida, è una bella addormentata, totalmente inconscia (Neumann, 2009).
All’estremo opposto, la malattia di Ramona si pone come la manifestazione dell’impotenza della cultura davanti a madre natura e il suicidio di Andrea sottolinea l’insondabilità di un mondo psichico lontano che investe e spesso sostituisce realtà. Quando saluta la madre nudo e completamente dipinto di rosso, invaso dal rossore inconscio, la sua distanza psichica è annunciata dalla sua collocazione nello spazio: nell’inquadratura Andrea è sovrapposto al punto di fuga. La distanza fisica equivale alla distanza psicologica, il concreto e il simbolico sono sovrapposti, come accade in quel “disperato tentativo di rivolta” che la psicosi rappresenta (Freud, 1929), quando la funzione trascendente sembra non riuscire ad attivarsi (Jung, 1934-54).
La bellezza magica
La giraffa che tra le rovine appare e scompare, potrebbe da un lato rappresentare un simbolo dell’adattamento, che viene messo a dura prova e viene meno dinanzi alla caducità della vita. La nana più avanti conforterà Jep: “Nessuno è adatto a niente, te lo dice la regina dei disadattati. Tu soffri e non capisci”. La giraffa potrebbe altresì oggettivare il grande lutto. “Fa’ sparire anche me”, chiede Jep al mago; ma è solo un trucco, e lui lo sa. Desidera sparire per evitare il dolore, ma è impossibile far sparire una giraffa. Per vivere non può sottrarsi a ciò che l’esistenza gli riserva in quel momento: chi evita la morte elude la vita (Jung, 1914-30). Romano, dopo essersi illuso invano di poter sublimare la malinconia nel teatro, congeda la città, deluso, sconsolato dal senso di fallimento. Il suo ritirarsi è inoltre un’uscita di scena dal significato psicologico: la Persona dedita alla performance, quindi al fuori, abdica in favore dell’interiorità, di emozioni avversive, ardue da affrontare, ma decisamente più autentiche. L’incontro con il Sé significa innanzitutto l’incontro con la propria Ombra. Anche nell’episodio della santa il dettaglio delle radici riporta a questo tema. Le radici sono ciò che giace celato e al tempo stesso il principio, “ciò che non può essere tagliato” (Guenon, 1990). Cibarsi di radici esprime il passaggio individuativo indispensabile di introiettare aspetti d’Ombra.
“Sotto il bla bla bla” c’è l’emozione. La bellezza è ad alta intensità emotiva, genera l’esperienza mista del numinoso. È più della somma di ogni singola manifestazione di bellezza fotografata da LGB. Perché la bellezza è un processo, proprio come l’individuazione, e il passaggio finale consiste nel guardarla con l’occhio dell’anima, senza accontentarsi di quello che dicono i sensi. Per conquistare questa verità non si può prescindere dal contraltare inconscio, la controparte straniera.
La tendenza a chiudere frettolosamente la gestalt per evitare un pieno contatto, oppure a non chiuderla mai per evitare la separazione o nell’illusione di uno “stato di kiev” prolungato (Baudelaire, 1860), a correggerla con la chirurgia estetica per omologarla ripetendo i modelli del consumismo, rappresentano il fittizio agio dell’inciviltà. Al contrario questa si ritrova sommersa in un’estetica del disagio, che non trova mai soddisfazione, perché tutta protesa verso i tempi e i voleri del fuori.
Un processo psicologico, invece, consiste nel superamento dell’impossibilità di stare nella tensione di una gestalt aperta, rimanendo in contatto con l’affetto e in attesa nel vuoto fertile, considerando la psicopatologia come un racconto mitico e il sintomo come opera creativa dell’adattamento. Il processo psicologico non è un più, procede verso l’interno, il che non risolve un enigma, ma porta ad una rivelazione che aumenta il mistero dell’uomo, che va rispettato.
La bellezza appare come un lampo, è solo intravista, nella penombra, come avviene nei palazzi che apre “l’uomo delle chiavi”. Non vi si può accedere in maniera ordinaria, per farlo occorre un percorso di ricerca nella terra di mezzo, tra la notte e il giorno, e l’ausilio dell’affidabile inconscio. La bellezza conduce oltre i confini del necessario e delle mura domestiche, è la libertà di affrancarsi dai bisogni semplici per spingersi nell’agorà, al centro nella polis. Il centro della personalità è il Sé (Jung 1934-54), l’unione di coscienza e inconscio, dove è possibile il ricongiungimento con l’altro nell’unus. Questo centro è perfettamente rappresentato dalla città, arcaicamente considerata un axis mundis, punto di incontro tra cielo terra e inferno (Eliade, 1989).
Sarà per questo che ne LGB le fotografie dei ponti sul Tevere e dei cieli serici di Roma all’alba e al tramonto rispecchiano al meglio l’inafferrabilità della bellezza, destando stupore e meraviglia nello spettatore.
La voce fuori campo di Jep sul finire, dichiara l’inizio di un nuovo libro, la speranza, la rinascita del logos spermatikos, come forza generatrice. Jep esprime l’intenzione di scrivere riguardo la “fauna”, riguardo i trenini delle feste che “sono belli perché non vanno da nessuna parte”, e di non volersi occupare dell’altrove, perché un romanzo è solo un trucco.
Ma la bellezza è l’altrove, e una simile conclusione non può che esprimere la resa di fronte a questo, così come le numerose scene che avevano il sapore di tanti potenziali finali: è impossibile realizzare una descrizione esauriente e finita della bellezza. Per fortuna.
Bibliografia:
J. Bachelard, Psicanalisi delle acque, 1942, RED
C. Baudelaire, I paradisi artificiali, 1860, Mondadori
J. Baudrillard La sparizione dell’arte ,1988, 2012, Abscondita
C. Bukowski, La canzone dei folli. Poesie II, 1997, Feltrinelli
C. Bukowski, E così vorresti fare lo scrittore?, “Sifting through the Madness for the Word, the Line, the Way”, 2003, Guanda
M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, 1989, Borla
S. Freud, Il disagio della civiltà 1929, Einaudi
R. Guénon, Simboli della scienza sacra, 1990, Adelphi
J. Hillman, Re-visione della psicologia, 1992, Adelphi
C.G. Jung, Il libro rosso, 1914-30, Bollati Boringhieri
C.G. Jung, Tipi psicologici 1921, Bollati Boringhieri
C.G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, 1934-54, Bollati Boringhieri
D. Kalshed, Il trauma e l’anima, 2013, Moretti&Vitali
M. S. Lobb, N. Amendt-Lyon, Il permesso di creare. L’arte della psicoterapia della Gestalt, 2003, 2007, Franco Angeli
E. Neumann Amore e psiche, 1989, Astrolabio
Platone, Tutte le opere, 2009, Newton
D. Winnicott, Gioco e realtà, 1974, Armando
La Dott.ssa Maris Nitti si è laureata nel 2009 all’Università “La Sapienza” di Roma in psicologia, E’ iscritta all ordine degli psicologi del Lazio, psicoterapeuta Gestalt, analista individuale e di gruppo , specializzata presso il CSP. Si interessa di arte ed esperienza estetica, viv e a Roma, dove lavora come libera professionista