Presentato al Convegno Adolescenza: dramma e mistero
Frosinone 30 novembre 2018

Nel trattare questi comportamenti autolesionistici, ho pensato di presentare alcune riflessioni tratte dall’esperienza clinica, illustrando un caso che ho seguito per un breve periodo in psicoterapia micropsicoanlitica.

Relativamente all’impostazione diagnostica, faccio riferimento ai dati raccolti da altri studiosi citati in bibliografia ed in particolare a quelli di una ricerca effettuata da Cerruti R., Presagi F. e Manca M. (2012) dell’Università la Sapienza di Roma e pubblicata nel 2012 sull’American Journal of Orthopsychiatry (Vol. 82, N. 3, 298-308).

Gli autori di questa ricerca hanno intervistato un campione di 365 studenti della facoltà di psicologia, con l’intento di individuare la percentuale di persone, senza diagnosi di disturbo psichico, che avesse avuto questo comportamento e con quale frequenza. La finalità era di confrontare i dati raccolti con quelli di altri paesi e di correlarli con quelli di un questionario di valutazione clinica in cui si evidenziassero le componenti di personalità borderline, la dissociazione e tratti di depersonalizzazione assieme ad elementi psicologici quali la percezione del corpo, il controllo cognitivo delle emozioni e le inibizioni.

Favazza & Rosenthal, (1993) hanno definito il DSH (deliberate self-harm) un comportamento volto a danneggiare/distruggere volontariamente i tessuti corporei, senza intento suicidario. Il fenomeno più frequente è un danno moderato, mai letale, che il soggetto si procura ripetitivamente, tagliandosi, procurandosi ustioni e scarnificazioni e impedendo il processo di cicatrizzazione. Il comportamento inizia nella prima adolescenza (12-14 anni) e può durare fino all’inizio dell’età adulta. È stato evidenziato che il comportamento è correlato a disturbi di personalità borderline e agli stati dissociativi, nei quali le manipolazioni del corpo sarebbero un tentativo di tornare a contatto con la realtà. Tuttavia, ci sono anche evidenze di nessuna correlazione con gravi componenti psicopatologiche. La ricerca su menzionata, ad esempio ha dimostrato che questi comportamenti autolesionistici nella maggior parte dei casi non sono correlati a psicopatologia, ma sono presenti nella popolazione giovanile con tratti del carattere quali l’impulsività, l’apertura e curiosità verso nuove esperienze, labilità emotiva e ricerca della punizione, cattiva percezione del proprio corpo e cattivo rapporto con esso. Inoltre, i risultati della ricerca risultano corrispondere a quelli raccolti anche in altri paesi europei, negli Stati Uniti e in Canada.

Relativamente all’eziopatogenesi, il DSH è stato riscontrato nei soggetti traumatizzati, reduci di guerra, nelle vittime di abuso fisico e sessuale, negli adolescenti istituzionalizzati e in persone che hanno avuto storie di abbandono, trascuratezza, attaccamento insicuro e difficoltà di mentalizzazione. (B.Van Der Kolk, 2015).

Da questo breve riassunto risulta un quadro molto ampio in cui è impossibile trovare una risposta certa e definitiva su chi e perché fa del male al proprio corpo ed è quindi molto difficile rispondere alle richieste dei genitori che si rivolgono chiedendo aiuto per i loro figli e che, il più delle volte sono alla ricerca della formula magica, sia in termini di diagnosi che di cura.

Per certo sappiamo che il DSH è un comportamento tipico nell’adolescenza e che l’esordio coincide con la pubertà, sappiamo anche che c’è una maggiore incidenza nel sesso femminile, proprio come per l’anoressia, alla quale può essere associato. Infatti, in clinica il DSH è quasi sempre associato a rimuginamento sul proprio corpo, appetenza ed abuso di alcol e sostanze psicotrope. Inoltre, questo comportamento autolesionistico ha un’altra specificità, quella di danneggiare ealterare in modo indelebile i tessuti superficiali del corpo: la pelle.

L’associazione, altrettanto frequente, al tatuaggio è inevitabile.  P. Bolmida, (2001) considera il tatuaggio e il piercing, alla stregua di altre forme di alterazione dell’epidermide, un tentativo di proteggere l’apparato psichico da un eccesso di tensioni. È nota, infatti, la transitoria sensazione di benessere provata dopo quella dolorosa, sia nel DHS che in altre pratiche di attacco all’epidermide.  Bolmida “considera la superficie cutanea nella sua estensione globale come una vasta zona erogena, in grado di veicolare ed assorbire, tramite i meccanismi dello spostamento, il bisogno spasmodico di abbassare la tensione derivante dalle eccitazioni aggressive e sessuali tipiche della pubertà.” Possiamo aggiungere che nella pubertà sotto la spinta dello sviluppo ormonale, tali eccitazioni sono particolarmente virulente e di non facile gestione, in quanto lo spostamento su nuovi oggetti, al di fuori dell’ambito familiare, è ancora difficile, mentre quello sugli oggetti dell’infanzia diventa pericoloso.

La stessa considerazione vale, come ci ricorda Freud S. (1905), per le psiconevrosi, cioè per tutte quelle situazioni in cui l’appagamento del desiderio di carattere sessuale e/o aggressivo non può essere raggiunto. Si forma un sintomo che consente l’abbassamento temporaneo della tensione attraverso l’appagamento sostituivo della pulsione nel suo aspetto libidico e aggressivo: realizzazione del desiderio e punizione.

Bolmida P. (2001) aggiunge inoltre che “maggiori sono la vastità della superficie epidermica interessata e il numero delle incisioni subite, più grande è il pericolo che l’adolescente incorra in gravi disordini intrapsichici durante il suo percorso evolutivo”.

Ma perché la pelle, e perché colpirla in modo indelebile? In questi comportamenti autolesionistici viene colpita l’epidermide in quelle parti del corpo che possono essere più facilmente raggiungibili, ma anche più facilmente nascoste. (Qui c’è una differenza rispetto al tatuaggio in cui prevale la componente esibizionistica). Il soggetto prova vergogna per ciò che fa. È possibile, quindi, che l’organo colpito non rappresenti solo uno spostamento della pulsione sessuale da altre zone erogene.

I post-freudiani che a partire da Winnicott W.D. (1974) hanno dato importanza alle prime interazioni madre-bambino, ritengono che le carenze delle cure materne intese come presenza fisica e psichica, come capacità di mantenere un rapporto constante di contenimento empatico, rendono il bambino incapace di costruire il senso di sicurezza e di fiducia che consente l’esperienza di attività autoconsolatorie e la progressiva mentalizzazione dei bisogni fisici.

Questa condizione è ciò che permette al bambino di uscire dall’onnipotenza narcisistica, di distinguere sé stesso dall’oggetto, iniziare a sopportare la frustrazione del mancato appagamento immediato del desiderio e, soprattutto, di non vivere tale frustrazione come autoinflitta.

Secondo Anzieu (1985) le stimolazioni epidermiche, i toccamenti, gli sfregamenti, i massaggi, al pari dell’allattamento, sono cure materne che, oltre a generare sensazioni piacevoli, costituiscono un codice di comunicazione che consente al neonato la costruzione di un involucro narcisistico somato-psichico che definisce Io-pelle, da cui potrà partire per effettuare gli investimenti libidici oggettuali. La costruzione di un Io solido, dipenderebbe quindi dalla presenza di un oggetto esterno contenitivo, percepito a livello sensoriale sulla pelle e successivamente concettualizzato come madre-sé stesso ed infine come rapporto oggettuale.

Se la funzione di contenimento non avviene in maniera adeguata, per assenza reale o per falsa presenza della madre che nasconde la sua aggressività e rivalità inconscia, la pelle resterà il luogo privilegiato dell’incontro/scontro delle pulsioni aggressive e libidiche. Nelle riattivazioni in età adolescenziale in cui, come noto, oltre alle dinamiche edipiche riprendono forza anche le fasi pregenitali dello sviluppo, si potrà assistere ad una riedizione inconscia della dinamica relazionale della diade figlio/madre, con reciproche oscillazioni tra desideri di contenimento-accudimento-controllo e desideri di allontanamento-espulsione. In questa prospettiva il DHS rappresenterebbe un acting-out aggressivo nei confronti di quell’Io-pelle /madre-se-stesso in cui è incistato il trauma. Il trauma, cioè una ferita indelebile, non rappresentabile e non dicibile, per lo meno con le parole. Si può solo agire, probabilmente colpendo quella parte del corpo in cui il trauma è percepito.

Le cose si complicano, in termini di coazione a ripetere, nei casi di ripetizione transgenerazionale del trauma; lo vedremo nell’esempio clinico.

La storia di Paula

Qualche anno fa si rivolsero a me i genitori di un’adolescente che presentava un impulso incoercibile al DHS. I genitori non riuscivano a capire la figlia, il suo comportamento risultava inspiegabile, fuori da ogni logica: la ragazza, che chiameremo Paula, sembrava non mostrare particolari reazioni emotive neppure difronte ad eventi gravi che riguardavano la famiglia; a tratti si mostrava ubbidiente, mentre in altri era oppositiva e irrispettosa. Le difficoltà erano iniziate, a dire dei genitori, con l’inizio della pubertà ed erano esplose nel passaggio alla scuola media superiore.

Paula si inserì rapidamente in un gruppo di ragazzi che faceva uso di alcol e psicofarmaci, prevalentemente antidepressivi o benzodiazepine: un mix pericoloso che genera stati confusionali, talvolta eccitazione e aggressività. In queste circostanze la ragazza era stata iniziata al DSH, ma nessuno in famiglia se n’era accorto, perché si era tagliata in parti del corpo non visibili. L’elemento più eclatante e che destava maggiore preoccupazione era il pessimo rendimento scolastico.

Per allontanarla dalle cattive amicizie ed indurla ad una maggiore concentrazione nello studio, i genitori decisero di iscriverla in un rinomato istituto scolastico, gestito da un rigido ordine religioso, ubicato a parecchi chilometri di distanza dal primo centro abitato.

In questa decisione dei genitori c’era l’implicito riconoscimento della loro incapacità di prendersi cura di un’adolescente che non corrispondeva al proprio ideale di figlia e il preconscio desiderio di sbarazzarsene. Nell’allontanarla c’era anche il tentativo (questo totalmente inconscio) di sottrarla ad una coazione a ripetere familiare che aveva afflitto diverse generazioni di entrambe le linee materna e paterna. Un trauma filogenetico che aveva segnato gli ascendenti di Paula e che potrebbe essere definito con l’espressione “la perdita del padre”. Questi elementi relativi alla storia familiare di Paula, assieme al copioso materiale raccolto durante le sedute individuali precedentemente svolte con altri membri della famiglia, sono stati fondamentali per la comprensione della situazione psicologica della ragazza ed evitare la facile tentazione di etichettare i suoi comportamenti incomprensibili entro i rigidi parametri delle classificazioni diagnostiche.

Infatti, a differenza di altri orientamenti psicoanalitici, la micropsicoanalisi prevede la possibilità che lo stesso analista prenda in trattamento più membri della stessa famiglia. Impresa non priva di ostacoli e non sempre opportuna o consigliabile, soprattutto ai giovani analisti. Tuttavia, se condotta con la dovuta scrupolosità e correttezza professionale, può permettere di districare situazioni nevrotiche di difficile risoluzione. Sarà necessario riconoscere le insidie del transfer, anzi dei transfert e del controtransfert, e non peccare di onnipotenza narcisistica, quindi, come ci ricorda A. Correale, bisogna avere l’umiltà di chiedere l’aiuto di un collega supervisore.

L’analisi di più membri della famiglia da parte dello stesso analista, può fornire informazioni sulle vicende esistenziali, le esperienze infantili ed i legami oggettuali tipici dei nuclei familiari, anche in relazione ai contesti ambientali. Inoltre, può evidenziare un fenomeno di coazione a ripetere familiareche vede la trasmissione e ripetizione di vicende esistenziali di tipo traumatico, da una generazione all’altra, in nuclei familiari in cui sono presenti membri portatori di coazioni a ripetere individuali, che trovano rinforzo nell’incontro con il partner e ripetizione/ri-attualizzazione nelle vicende dei figli.

Cerco di spiegarmi meglio: l’argomento della ripetizione transgnerazionale dei traumi, è stato trattato da molti autori, da Freud S. (1913) alla Shutzemberg A. (1993). Tutti concordano sulla ripetizione dei traumi da una generazione all’altra, seppur con manifestazioni parzialmente diverse, resta però aperta la questione su come avvenga la trasmissione e di cosa si eredita.

Tra i micropsicoanalisti Manuela Tartari si occupa da anni dell’argomento. “Ciò che si eredita e trasmette – afferma Tartari – è una propensione all’utilizzo di certi meccanismi di difesa e una familiarità all’espressione psicobiologica di certi desideri.” (Tartari, 2018).

  1. Peluffo nel 1987 scriveva: “Il trauma richiede più generazioni per essere abreagito…l’ipotesi è che la coazione a ripetere si costituisca su brevi periodi (alcune generazioni) che sono (forse) il limite di durata della spinta energetica (fonte pulsionale filogenetica) dell’insieme traumatico che mantiene la tensione della coazione a ripetere”.

Io ipotizzo che l’incontro con un partner che sia portatore di esperienze ontogenetiche e filogenetiche simili, da un punto di vista dei vissuti traumatici, possa avere una funzione di rinforzo e risonanza del trauma nella generazione successiva, rendendone difficile l’abreazione.Per esempio, nel caso di coppie provenienti da famiglie con forte propensione agli agiti incestuosi, questi, pur non agendo direttamente l’incesto, tenderanno a mantenere una relazione seduttiva con i propri figli nei quali il conflitto si potrà esprimere con inibizioni sessuali e/o della funzione riproduttiva. Il messaggio inconscio trasferito e fortemente conflittuale sarà “il divieto di uscire dal clan”.

Nel caso di Paula, l’elemento ripetitivo è stato la perdita del padre, per morte o abbandono, volontario o forzato, con la conseguente necessità da parte delle madri, di farsi carico del pesante fardello della cura della prole, con la relativa ambivalenza: contemporaneo desiderio di protezione e di eliminazione. In questi casi e in certe condizioni ambientali, i figli possono essere non solo un limite alla carriera o alla libertà individuale, come succede nei contesti sociali più ricchi, ma addirittura una minaccia alla propria incolumità.  Fino a non molto tempo fa, nelle famiglie molto numerose, con difficoltà economiche, qualche figlio, soprattutto le femmine meno atte ai lavori pesanti, veniva affidato ad altri parenti o a persone benestanti, cioè, allontanato dalla famiglia.

 Il figlio inconsciamente può assumere su di sé la colpa della perdita del padre, che sul piano manifesto attribuisce alla madre, ed esprimere il conflitto con agiti autolesionistici.

Come sopra accennato, Paula fu mandata in collegio, cioè allontanata dalla famiglia.

La ragazza, colta da sconforto, cercò inutilmente di opporsi, si sentì tradita, e da quel momento iniziò a covare un profondo risentimento nei confronti di entrambi i genitori. Nelle sedute accusava la madre di freddezza, disinteresse nei confronti della funzione materna, amore solo per sé stessa e la sua carriera. Allontanata da casa, dalla famiglia e dagli amici, iniziarono ad evidenziarsi stati depressivi, oppositività nei confronti dell’ambiente e dei nuovi compagni di scuola, ad eccezione di un paio di amiche con le quali faceva progetti di fuga, propositi di regime alimentare restrittivo, condivideva il fumo e il boicottaggio delle attività extrascolastiche. La ragazza non mancava di denunciare ai genitori la sua infelicità, ma le risposte che riceveva le risultavano sempre a-sintoniche.

Purtroppo, ad aggravare la situazione si aggiunse un episodio che può essere ragionevolmente definito “ripetizione familiare del trauma filogenetico”: il padre della ragazza abbandonò la famiglia e non diede più notizie di sé. La reazione fu devastante: esternamente congelata, ed indifferente agli eventi, Paula ribolliva di emozioni contraddittorie in cui predominava l’aggressività nei confronti della madre reputata responsabile di tutte le decisioni che la riguardavano, oltre che di tutti i mali che affliggevano la famiglia, inclusa la perdita del padre. Nei momenti di accesso all’introspezione Paula riusciva ad ammettere che ogni suo acting-out era rivolto a ferire e punire la madre.

Inoltre, nel materiale è lampante la correlazione ed equivalenza psichica tra il tatuarsi e le altre forme di automutilazioni. I tatuaggi rappresentavano la sfida nei confronti dell’ideale dell’Io materno: Paula pensava che per poter essere amata dalla madre avrebbe dovuto essere femminile, mentre lei si sentiva attratta dalla vita pericolosa.

L’usanza di scarnificare il corpo incidendovi segni e figure simboliche, è presente fin dall’antichità. Nell’epoca delle persecuzioni i cristiani si tatuavano simboli religiosi perché fosse marcata la loro identità spirituale. Tra i popoli dell’Oceania era in uso tatuarsi i simboli identificativi della loro appartenenza. Nota è pure l’usanza di tatuarsi tra i marinai e tra i detenuti. Non mancano neppure personaggi famosi tra coloro che si sono tatuati; solo per ricordarne alcuni, citiamo W. Churchill e lo zar Nicola II. (wikipedia.org/wiki/Tatuaggio) Inoltre, negli ultimi 30 anni il tatuarsi è diventato un fenomeno sempre più diffuso tra persone di diverse culture e classi sociali, tanto da rendere estremamente arduo individuare l’elemento che accomuna tutte queste manifestazioni dello stesso fenomeno. Per certo sappiamo che, nonostante le tecniche di eliminazione di queste scarnificazioni siano diventate molto sofisticate ed efficaci, nessuna di esse consente il ripristino totale del tessuto che, anche nel migliore dei casi, rimarrà di colorazione più scura; resterà cioè una macchia a segnare in modo indelebile l’evento traumatico.

L’elemento comune potrebbe quindi essere il trauma, qualcosa di indicibile, di non verbalizzabile, ma ciononostante iscritto nel corpo.

Ed è proprio il corpo il luogo in cui l’adolescente avverte il conflitto: un corpo che cambia rapidamente, che è fonte di eccitazioni, di desideri edipici potenzialmente realizzabili e forieri di paura e senso di colpa. Un corpo adulto in grado di porre il ragazzo ad un confronto armi pari con l’adulto dal quale ancora è fortemente dipendente sul piano emotivo.

Oltre che nel corpo, è sulla pelle, si diceva prima riprendendo il concetto di Io-pelle di Anzieu, che risuona la ferita lasciata dalla falsa presenza materna, per ambivalenza e rivalità inconscia.

Certamente in questi agiti si manifestano l’impulsività dell’adolescente, la mancanza di controllo delle emozioni, la sfida nei confronti degli adulti e nei confronti di sé stessi (bisogna avere coraggio per tagliarsi, non si deve temere il dolore e il sangue). Oltre a ciò c’è un tentativo di auto curarsi che, per coazione a ripetere si esprime attraverso la ricerca di una relazione simbiotica e indifferenziata in cui il trauma è incistato. Paula la ricercava ancora nella madre, ma soprattutto, nei suoi sostituti, con i quali condivideva il vissuto di solitudine e abbandono.  E lo faceva nell’unico modo in cui poteva esprimere il trauma: agendolo.

© Bruna Marzi

Bibliografia

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