violenza assistita(Estratto della Relazione tenuta dall’Autore al Convegno “LA VIOLENZA ENDOFAMILIARE: VISSUTA E ASSISTITA” svoltosi a Frosinone il 24 giugno 2016)

Per poterci orientare nell’argomento che mi è stato oggi proposto e cioè le conseguenze patogene della violenza familiare a cui il bambino assiste, dobbiamo familiarizzarci con due concetti fondamentali: il trauma psichico ed il funzionamento della mente infantile.

Come sempre sarà utile rifarsi all’etimologia della parola. La parola trauma viene dal greco τραῦμα («perforamento, trafittura») ed è connessa al verbo ti-trao (foro, perforo) infine a tròô (ferisco , ledo) dalla radice tar nel senso profondo di passare al di là.
La parola ci indica, cioè, con forza, l’azione di oltrepassare una barriera, un confine, e di disarticolare una struttura.

Il trauma psichico è fondamentalmente soggettivo (cioè lo stesso evento ha conseguenze anche drammaticamente diverse a seconda della maturazione dell’apparato psichico del soggetto che lo riceve e della costituzione del suo terreno psicobiologico) ed è classicamente decritto come un evento che inonda la mente con un iperafflusso di stimolo, che non può essere gestito e che disarticola in modo permanente, deformandola, la capacità successiva di risposta agli stimoli. Per farcene un’idea comune tutti possiamo pensare a quelle situazioni di enorme spavento che abbiamo esperito che ci lasciano paralizzati: la paralisi comportamentale è dovuta all’incapacità generalmente transitoria della nostra mente di poter gestire l’intensità debordante dello stimolo percettivo.

Come sottolinea Manuela Tartari in una importantissima trilogia dedicata al Trauma, al di là delle differenze di  interpretazione, tutti gli psicoanalisti osservano  come i pazienti traumatizzati siano incapaci di ricordare, richiamare alla mente i nuclei associativi  (rappresentazioni e affetti) interessati dal trauma. Si è parlato di esperienze non rappresentabili, meglio ancora, non pensabili.
Freud con la sua assoluta e dirompente chiarezza ci ricorda:  “Diviene trauma psichico ogni impressione la cui liquidazione, tramite lavoro mentale associativo o tramite reazione motoria, presenti difficoltà per il sistema nervoso.” (Sigmund Freud, Sulla teoria dell’attacco isterico, 1893).

Per poterci fare un’idea di quanto l’interazione adulto/bambino possa influenzare drasticamente lo sviluppo psichico dell’essere umano vorrei richiamare alcune note che avevo esposto in un mio recente lavoro.

…Un genitore è potente? A parte l’enorme sproporzione delle forze fisiche messe in campo diremo senza alcuna difficoltà: Si, lo è.

Un genitore può far impazzire un essere umano. Basterà rifarsi agli studi di Gregory Bateson sul doppio legame, ritenuto essere una delle concause determinanti della schizofrenia.

Il cosiddetto “doppio legame” è quello di una situazione in cui la comunicazione tra due individui, connessi da una stretta e importante relazione emotiva, presenta una conflittualità irrisolvibile  tra il livello del discorso esplicito, verbale, ed il livello non verbale, metacomunicativo (tono di voce, mimica facciale, modulazioni dello sguardo, gesti, atteggiamenti), e la situazione sia tale per cui il ricevente del messaggio non abbia la minima possibilità di decidere quale dei due messaggi sia vero (dal momento che essi sono in palese contraddizione) e nemmeno di poterne far notare l’incongruenza.

Una madre che dice al suo bambino: “io ti amo!” e contemporaneamente si irrigidisce e lo allontana da sé, se ovviamente tale comportamento è reiterato, rigido e stereotipato, mette il figlio in un loop angoscioso irrisolvibile.

Empaticamente il bambino ha colto la distanza e la repulsione della madre, ma questa sul piano manifesto non solo viene negata ma addirittura contraddetta.

Se il bambino da retta alla sua percezione metacomunicativa deve non solo ammettere che la madre, da cui dipende la sua vita, lo odi, ma anche che ella gli menta.

Parimenti, se accetta la comunicazione manifesta (io ti amo) deve ammettere che le sue capacità percettive siano fallaci, perdendo qualsiasi fiducia in queste ultime. La risultante è in genere un’oscillazione tormentosa tra le due percezioni che spesso viene risolto con la scissione del suo io in formazione.” 1

Ho fatto insieme a voi questo breve ripasso per ricordare a tutti che i genitori hanno tra le loro mani le menti dei loro figli.

Ricordiamo inoltre che nelle fasi più precoci di maturazione dell’apparato psichico, il bambino è prima psichicamente fuso con sua madre (si definisce fase simbiotica) e poi fa un uso massiccio del meccanismo di identificazione, cioè di quel processo mediante il quale un individuo costituisce la propria personalità assimilando uno o più tratti di un altro individuo e modellandosi su di essi.

In ambito psicoanalitico si distinguono:

identificazione primaria «modalità primitiva e infantile di costituzione della persona, forma originaria di legame affettivo di un soggetto indistinto nelle sue identità di sé e altro» (Vocabolario Treccani on line)

identificazione secondaria, «processo di relazione e modellamento con un oggetto esterno di cui si riconosce l’identità distinta da sé.»

Se comprendiamo la definizione di identificazione primaria che ci ricorda che il bambino non riesce ancora a distinguere se stesso dai suoi oggetti (la madre) ci renderemo conto di quanto la percezione sensoriale di una violenza agita sull’oggetto primario possa essere devastante.
Si pensi solo ad una fatto banale che tutti conoscono, alle coliche psicosomatiche del lattante che reagisce col suo corpo in modo disfunzionale alla percezione empatica dell’angoscia materna e potremo renderci conto che siamo al cospetto di una violenza quasi fisicamente patita.

Ricordiamo che chiamiamo traumatica una situazione vissuta di impotenza, una situazione, cioè in cui l’apparato psichico non può o non sa elaborare l’afflusso di angoscia. per questo distinguiamo la situazione traumatica psichica dalla situazione di pericolo: la situazione di pericolo è una situazione riconosciuta, ricordata, attesa, d’impotenza. Paradossalmente un pericolo reale se il bambino può reagire con rabbia, paura, scarico emozionale può non essere traumatico e non lasciare sequele. Ma una situazione in cui la violenza assistita coinvolge due oggetti d’amore parimenti amati e con cui si ha un legame di dipendenza, difficilmente può essere elaborata: quell’uomo che picchia mia madre è la stessa persona che ieri mi ha protetto o sollevato da terra quando ero caduto, quella donna che sbraita e insulta/umilia mio padre è la fonte del mio nutrimento. Si crea una situazione che non può essere decodificata, e spesso il bambino, pur di salvare l’oggetto, si mette al centro degli avvenimenti e si prende la colpa degli stessi: quasi l’8% dei bambini coinvolti in episodi di violenza assistita sviluppa , come vedremo ora colpa ed autoaccusa.

Silvia Mazzoni e Brunella De Stefano hanno compiuto un interessante studio comparativo 2 su 70 lavori della letteratura statunitense riguardanti gli effetti dell’esposizione al conflitto agito classificando le ricadute patologiche nel seguente ordine:

  • Ansia (14.28%)
  • Perdita autostima (11.42%)
  • Paura (11.42%)
  • Rabbia (10%)
  • Colpa / autoaccusa (7.14%)

e poi a seguire:

  • Tristezza (5.71%)
  •  Disperazione (5.71%)
  •  Preoccupazione (4.28%)
  • Vergogna (2.85%)
  • Terrore (2.85%)
  • Biasimo (2.85%)
  • Ansia da separazione (1.42%)
  • Confusione (1.42%
  • Impotenza (1.42%)

 

Per poter parlare delle ricadute psicopatologiche da un punto di vista epidemiologico dovremmo rifarci a studi longitudinali che per ora sono scarsi e frammentari, ma lo psicoanalista ben conosce, dalla storia cinica dei suoi pazienti le ricadute dell’esposizione percettiva della violenza familiare e sa che dipendono dalla precocità dell’apparato psichico e dal tipo di meccanismo di difesa messo in atto.
Possiamo dunque passarli in rassegna ricordando che l’utilizzo di quello o dell’altro dipendono dall’età del soggetto e dal suo terreno psichico costituzionale.

Il meccanismo più comune e più banale (non certo nelle ricadute patogene)  è quello della rimozione dell’evento.
Non potendo elaborare lo stimolo la mente del bambino mette in atto la rimozione massiva della percezione, nelle sue componenti di rappresentazione mentale e/o affetto, facendo passare nell’inconscio la percezione degli avvenimenti. In questo modo, se da una parte ottiene la mancata esplosione della sua struttura psichica, dall’altra perde da quel momento in poi la possibilità di poter comprendere e mentalizzare l’avvenimento e di poterne abreagire l’accumulo emozionale. E come sappiamo, nell’inconscio gli avvenimenti traumatici conservano la loro forza energetica nel corso di tutta l’esistenza (cioè fino a quando non possono passare alla coscienza e quindi storicizzarsi, cosa che avviene ad esempio durante una psicoanalisi) e daranno luogo a soddisfazioni sostitutive costruendo, a seconda del terreno del soggetto, vari sintomi: isterici, fobie, ossessioni, psicosomatosi.

Un’altro meccanismo massicciamente impiegato è quello dell’identificazione con l’aggressore. E’ un noto e ben conosciuto meccanismo di difesa descritto nel lontano 1936 da Anna Freud: il soggetto di fronte ad un pericolo esterno si identifica con l’aggressore, sia assumendo la sua stessa condotta aggressiva, sia imitando fisicamente e moralmente l’aggressore.
Tutti conoscete una delle possibili conseguenze di questo processo psichico nella ben nota sindrome di Stoccolma, quel particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto dalla Sindrome di Stoccolma, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando una vera e propria alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.
L’identificazione con l’aggressore insieme alla coazione a ripetere che si definisce come la tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze, porterà a comportamenti violenti sia nel bambino che nel futuro adulto.

Una delle possibili conseguenze psicopatologiche è data dal frequente riscontro di un disturbo del comportamento dirompente in adolescenza, caratterizzato da aggressività auto ed etero-distruttiva associata ad un deficit nel controllo degli impulsi.
Senza mai trascurare la biologia: l’esposizione cronica alla violenza domestica, provoca un’ipersecrezione degli ormoni dello stress (in particolare il cortisolo) neurotossici per la corteccia frontale che risulta particolarmente correlata a deficit nel funzionamento cognitivo e dell’apprendimento. 3 

Una delle conseguenze più gravi, che interessa soggetti costituzionalmente predisposti è quella dell’utilizzo di due meccanismi di difesa correlati: il diniego e la scissione: Il diniego è un termine utilizzato da Freud per indicare un meccanismo di difesa arcaico per mezzo del quale il soggetto si rifiuta di riconoscere e prendere atto di una realtà traumatizzante. Spesso, se non sempre, si serve a questo scopo, di un meccanismo disastroso denominato scissione dell’Io: la mente del bambino si sfalda, scinde, in una parte che prende atto dell’avvenimento traumatico ed in una che lo nega e vi sostituisce una costruzione fantastica spesso, in ragione dell’onnipotenza, colorata di protagonismo e sentimenti di autoaccusa.  Il bambino si accusa della violenza esperita da uno dei partner sull’altro o, nella migliore delle ipotesi, si accusa per non aver protetto il genitore abusato.
Spesso vive la violenza come realizzazione dei suoi desideri inconsci: facciamo un esempio. Se si tratta di una bambina e la vittima sottoposta a maltrattamento è la madre, la bambina, nel pieno della sua vicenda edipica, che come sappiamo la spinge a desiderare inconsciamente la morte della rivale, potrà vivere la violenza come una materializzazione dei suoi desideri inconsci e portarne la colpa per tutta la vita.
I maschi che si confrontano con un padre violento vivono il doppio trauma del confronto terrifico con il Rivale e l’autoaccusa di non aver protetto l’oggetto d’amore. Possiamo rappresentarci quale sia il vissuto terrifico di un bambino solo considerando che il desiderio completo dell’Edipo è quello di sbarazzarsi, uccidendolo, del rivale: immaginate dunque un bambino di tre anni (età dell’esplosione di Edipo), alto statisticamente 92-94 cm, del peso di circa 15 Kg, che combatte per uccidere con un essere alto il doppio di lui che pesa 5-6 volte più di lui.

E’ come se un adulto dovesse lottare con un animale alto 3 mt e mezzo (cioè più del soffitto dei nostri appartamenti) che pesa 350/450 Kg. Non so se mi spiego: come affrontare a mani nude un orso Grizzly!

Comunque sia i bambini vivono in uno stato di costante paura e ansia, mista a rabbia, imbarazzo e umiliazione. Sono sempre in guardia, in attesa che il prossimo evento si verifichi, vivono una condizione di perenne insicurezza, tanto da sviluppare spessissimo un disturbo post-traumatico da stress, simile a quello dei militari. La rabbia è rivolta non solo verso l’abusante ma anche verso l’abusato, colpevole di non essere in grado di prevenire la violenza.

Molto frequenti i disturbi del sonno, la mancanza di concentrazione con conseguente scarso rendimento scolastico, varie somatizzazioni a carico dell’apparato gastrointestinale o cefalee sine materia, enuresi, tristezza, depressione e rabbia. Possono verificarsi veri e propri ritardi di sviluppo, riduzione delle capacità cognitive e la sindrome da deficit di attenzione e iperattività.

Uno dei fattori che complica ulteriormente il quadro psicopatologico è quello del Segreto, a cui spesso sono consegnati dall’autorità genitoriale, sia abusante che abusato. Il mantenimento di un Segreto e l’Obbedienza differita struttura difese che si espandono come una rete in perenne crescita: come si sa le associazioni mentali si toccano e sono tentacolari, per cui, mantenere un segreto implica un controllo totale sui propri pensieri e sui propri atti: di qui la costruzione di sindromi ossessive-compulsive marcate estremamente tormentose.

Riassumendo queste mie riflessioni possiamo concludere che le conseguenze della violenza assistita (traduzione infelice dall’inglese “witnessing violence”, che letteralmente significa violenza di cui si è testimoni) variano da soggetto a soggetto, contano la reiterazione dell’esperienza, l’ammontare della decodifica del fatto che viene dai genitori (il diniego e la consegna al silenzio sono un aggravante patogeno), la struttura costituzionale della mente del bambino, la transgenitorialità delle vicende. Spesso i bambini vittime strutturano difese incoercibili che rendono estremamente ostica la testimonianza in sede giudiziaria e deformazioni sintomatiche che possono creare difficoltà notevoli di discriminazione tra realtà e fantasia.
E’ certo che in una alta percentuale di casi l’esposizione del minore alla violenza familiare lascia sequele gravi per tutto il corso dell’esistenza.

Quirino Zangrilli  ©

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Note:

1 – Quirino Zangrili, Il Padre: ambasciatore di realtà, Psicoanalisi e Scienza, 2016.  torna su!

2 – Silvia Mazzoni e Brunella De Stefano, Violenza tra genitori: un trauma ancora sottovalutato, Atti del Congresso: “Origine dei Disturbi Psicopatologici” Società Italiana di Psichiatria, SIP 2005, Roma 22-24 giugno 2005.  torna su!

3 – Malacrea M. Trauma e riparazione. La cura dell’abuso all’infanzia. Milano: Raffaello Cortina, 1998.
Shonk SM, Cicchetti D. Maltreatment, competency deficits, and risk for academic and behavioral maladjustment. Dev Psychol 2001; 37: 3-17.  torna su!