Recensione di Giuseppe Beato

C’è un filo rosso che collega il grande pensiero occidentale allo schema etico di comportamento di chi opera in una pubblica amministrazione. A disvelare l’affascinante percorso di questo “filo“ ci ha pensato Fabrizio Giorgilli con l’enciclopedica analisi condotta nel testo “Etica e virtù nel lavoro pubblico” (2020, Giappichelli editore).

Sono necessarie due premesse: la prima è quella di abbandonare per sempre l’idea che il pensiero filosofico sia ormai un orpello accademico superato nella realtà dal sapere scientifico e dal pensiero umanistico contemporaneo: l’evoluzione del pensiero filosofico e spirituale è il sostrato invisibile che presidia ancora oggi il nostro “essere al mondo”, il nostro essere in equilibrio nell’avventura terrena. Emanuele Severino affermava che la filosofia è come il cuore per il fisico di una persona vivente: è indifferente che se ne conosca o meno la funzione o addirittura l’esistenza, rimane il fatto che si vive perché il cuore c’è e funziona; il compito dello studioso è quello di estrarre il succo, di scoprire le radici antiche dei modi di sentire, di atteggiarsi e di operare che ordinariamente sviluppano le persone. E’ appunto quello che si propone e realizza l’Autore. Tuttavia la sua ricerca non si orienta – questa la seconda premessa – verso il sapere teoretico, espresso dalla filosofia nei suoi percorsi d’indagine sull’essere e sul divenire; Aristotele distingueva fra “sapere teoretico” (episteme) e “sapere morale” (phronesis) che rivolge, quest’ultimo, la sua attenzione alla “pratica” delle azioni dell’uomo: diritto, politica, giustizia, morale, etica. Sono le due facce fondamentali della filosofia (la “ragion pura” e la “ragion pratica” di kantiana memoria), spesso interconnesse nel pensiero dei singoli filosofi, ma aventi un taglio speculativo affatto diverso. La filosofia della pratica indaga su ciò che l’essere umano fa e deve fare; il suo oggetto principale sono l’etica e la morale. Nel libro viene data ai due termini la seguente accezione: l’etica pone l’accento su ciò che è stimato buono, la morale su ciò che s’impone come obbligatorio (pagg. 23/28).

Pensiero etico e pensiero morale sono l’asse principale del lavoro di Giorgilli: il progetto è quello di passare in rassegna le espressioni più significative della tradizione filosofica dalla Grecia al XX secolo e del credo morale d’ispirazione cristiana, per poi collegare questi filoni di pensiero al concreto comportamento organizzativo del singolo nella pubblica amministrazione contemporanea, all’etica individuale del cittadino inserito nell’organizzazione pubblica. Non fa difetto all’autore una profonda e radicata coscienza della crisi in cui si dibatte oggi la pubblica amministrazione italiana (basti leggere l’introduzione del volume) e del persistente insuccesso delle

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riforme tentate e non realizzate; ma la risposta radicale che egli da’ è che “la speranza di cambiamento nella Pubblica Amministrazione è affidata al comportamento etico” (p. 371), in virtu’ del fatto che “il focus sui valori attraversa tutte le variabili dell’organizzazione pubblica” (pag. 271). In altri termini è l’approccio etico individuale quello che fa (farà, dovrà fare) la differenza.

L’autore non lo dice, tuttavia traspare dal suo esporre una prevalente ispirazione cristiana, specialmente dove egli richiama gli atti degli Apostoli (pag. 49) ricordando il passo in cui si dice che “essi partecipavano alla Cena del signore e pregavano insieme…mettevano in comune ciò che possedevano secondo le necessità di ciascuno”, come valori etici massimi dello stare insieme, sia nella società che in una comunità più ristretta quale quella di lavoro. Propendiamo anche per una predilezione per la predicazione di Martin Lutero, presente nella postfazione a cura di Daniele Garrone, lì dove si richiama il suo concetto di libertà del cristiano, che si esplica nella scoperta della “vocazione”, ossia della “chiamata particolare ad ognuno perché viva la sua vita operando per il bene comune”.

Non mancano e non sono certo recessivi rispetto alla dottrina della fede – ciò sia chiaro – particolareggiati riferimenti alla tradizione di pensiero liberal-democratico, ampiamente illustrata e discussa alle pagine 85/129 del testo.

I molteplici e precisi riferimenti ai caposaldi del pensiero occidentale, di cui è costituita la prima parte del libro di Giorgilli, sarebbero solo un’ottima rassegna accademica se egli non provvedesse a prefigurarne il collegamento con la realtà delle prescrizioni giuridico-normative che permeano l’azione della pubblica amministrazione: questo passaggio viene realizzato dopo la creazione di una “mappa concettuale” nella quale egli inserisce i diversi filoni di pensiero entro una griglia classificatoria composta da tre “localizzazioni”: l’Etica generale, l’Etica pubblica e l’Etica dei comportamenti nel lavoro pubblico (pagg. 130/144). Quest’operazione classificatoria costituisce il ponte per collegare l’humus concettuale che ha attraversato il pensiero filosofico occidentale con le concrete prescrizioni dello jus positum presenti nella nostra Carta Costituzionale: come d’incanto ci appaiono evidenti e vitali i collegamenti fra quei filoni di pensiero e i principi di legalità (tutela della libertà individuale), di eguaglianza, di giustizia sociale, di partecipazione civica, di trasparenza, di giustizia, di imparzialità che i Padri Costituenti dettarono affinché permeassero il vissuto concreto e quotidiano di chi opera nella pubblica amministrazione (si veda tutto il capitolo IV). Si realizza così una riuscita operazione d’incastro fra pensiero filosofico, pensiero cristiano, principi della Costituzione e comportamenti organizzativi richiesti ai singoli. Senza dimenticare l’apporto dei criteri direttivi etici che via via si accumulano con la produzione legislativa dell’Unione Europea.

L’originalità speculativa del testo di Giorgilli emerge, infine, nell’analisi dei modi attraverso i quali i principi etici “calano” dentro le organizzazioni pubbliche, permeandone inestricabilmente le caratteristiche peculiari; i principi previsti in astratto divengono vita reale, comportamento quotidiano, atteggiamenti etico-morali capaci di orientare i percorsi delle organizzazioni del lavoro pubblico. Così l’ultimo capitolo del libro, denominato “Dimensioni comportamentali etiche tra soggettività e intersoggettività”, chiude il cerchio del ragionamento complessivo dell’Autore e delinea il connubio virtuoso fra comportamenti organizzativi e principi etici.

Il prezioso bagaglio di prescrizioni etico/giuridiche presenti in “Etica e virtu’ nel lavoro pubblico” può senz’altro assurgere a indispensabile vademecum personale di chi opera dentro l’organizzazione pubblica. I principi etici tramandatici dal pensiero occidentale divengono norma giuridica e, di conseguenza, principio obbligato di comportamento individuale. L’osservanza di tali principi etico-morali è in grado, ove concretamente realizzantesi, di garantire efficienza, economicità, qualità e giustizia all’azione amministrativa pubblica.

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Ma…..c’è un “ma”.

Vorremmo aggiungere, in coda a una così compatta “costruzione morale” – permeata dalla convinzione dell’esigenza quasi ineluttabile di comportamenti generalizzati conformi a morale – alcuni moniti che sgorgano spontanei alla lettura di questo vero e proprio trattato di etica nella pubblica amministrazione.

Ci piace sviluppare questo pensiero partendo dalla svalutazione, condotta dall’Autore con il consueto garbo ma con forte distacco intellettuale, del pensiero di Max Weber. Da cristiano ortodosso quale egli indubbiamente è, Giorgilli gli lancia addirittura l’accusa ferale di “idolatria” (pag. 154). Con evidenza, risulta insopportabile l’idea (opposta alla base stessa di tutto l’impianto morale del libro) che il grande sociologo tedesco abbia concepito il modo burocratico di gestione come “basato su una rigorosa catena di comando e su una precisa articolazione dei ruoli assegnati”; l’organizzazione degli uffici e il comportamento dei singoli, così come pensati dal Weber, operano in modo impersonale, attraverso l’applicazione neutrale e vincolata di regole razionali dettate dall’alto, senza che il singolo operatore dia apporto di alcun contributo etico individuale. La coscienza individuale risulta in tal modo esiliata nei comportamenti organizzativi di chi opera in un’organizzazione burocratica. Siamo agli antipodi rispetto all’antropologia cara all’Autore! Anche a tralasciare il “resto” enorme del prezioso bagaglio weberiano – illustrato alle pagine 180 e 181 – l’asprezza dell’accusa lanciata da Giorgilli rimane ed ha un suo bel fondamento. A ben riflettere, anche l’applicazione neutrale e fredda di regole dettate dall’alto, che innerva il pensiero burocratico del Weber, trova linfa e forza in un sentire etico profondo: quello tedesco dell’obbedienza e dell’osservanza del comando! Quindi anche l’apparente impersonalità dell’agire burocratico è figlia di un profondo credo etico e di un comandamento morale. Ma non è questa la circostanza decisiva che impone il cambiamento di prospettiva etica sostenuto dall’Autore. C’è molto di più. Infatti il ruolo dell’amministrazione pubblica si è profondamente modificato nel corso del XX secolo: da quello di semplice e fedele esecutrice del comando politico a quello di custode principale e autonoma dell’imparzialità dell’operare dello Stato, a beneficio di tutti i cittadini amministrati, non solo di una parte di essi. Questo salto di qualità nello svolgimento del ruolo amministrativo – asseverato in tutti i regimi giuridici degli Stati occidentali – implica una dialettica a volte vivace con il vertice politico delle varie amministrazioni pubbliche, possibile solo al funzionario che conosca, condivida e immetta nei suoi comportamenti quotidiani un sistema di valori – di democrazia, di giustizia, di trasparenza, etc. – quale bagaglio professionale e umano indispensabile per svolgere le sue funzioni pubbliche. Questo salto di qualità rispetto all’etica individuale weberiana è indubbio e incontrovertibile ed è merito dell’Autore averne dato opportuna evidenza.

Eppure, la caratteristica preminente della razionalità impersonale dell’organizzazione burocratica propugnata dal Weber, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra sotto forma di realtà, nelle sue mille sfaccettature. Una serie di anomalie, alcune delle quali strutturali ed endemiche, possono in concreto inquinare quella macchina perfetta che sarebbe l’organizzazione pubblica se guidata solo dai dettami della morale. L’Autore lascia qualche piccolo spazio qui e là a rilievi riguardanti comportamenti individuali contrari alla morale (si veda fra gli altri a pag. 174 il riferimento alle “spinte distruttive dell’egoismo” e “ poteri desiderati come strumenti di realizzazione del proprio interesse personale”); preferisce lasciare sullo sfondo una lettura della locuzione “etica personale” che, ahinoi, ha eguale rilievo intellettuale e trova nel contempo riscontri reali e forza invasiva perlomeno uguale rispetto ai comportamenti conformi all’etica orientata al bene comune: ci riferiamo agli atteggiamenti individuali, dettati da egoismi, invidie, preconcetti, paure che partorisce un sistema di valori/disvalori contrari al bene comune e che, al pari dell’etica orientata al bene comune, innerva di se’- in misure di volta in volta variabili – l’andamento di una qualunque realtà organizzativa, pubblica o privata. In tale contesto diventano protagonisti principali il diritto e

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le norme -“la cui inosservanza attiva una reazione della società in forma sanzionatoria” (Durkheim, citato alla pagina 38)- che hanno il compito di frenare i comportamenti contrari al sentire morale fattosi legge e di incentivare i principi etici riconosciuti dal diritto positivo. Ma la costruzione delle norme giuridiche, a propria volta, non discende da un astratto iperuranio, ma è sempre il risultato di una composizione di interessi che si articolano ogni volta in una loro forma originale, non necessariamente con esiti felici. Il dinamismo continuo degli interessi di parte e delle resistenze corporative, degli accadimenti inaspettati e dei principi dichiarati ma non attuati determina l’incerto procedere della realtà, delle comunità organizzate e delle loro organizzazioni burocratiche. Per risolvere questi problemi è necessaria una visione dei problemi e un “talento risolutivo” che fino ad oggi il legislatore italiano non ha avuto per la sua burocrazia. Di fronte a tali problemi l’etica dei singoli recede, passa in secondo piano e rimane in attesa di un atto sovrano, di una direttiva generale, di una buona legge che inducano a una composizione razionale (fattibile e governabile) degli interessi e dei poteri, cioè della predisposizione di mezzi utili a raggiungere i fini desiderati. La necessità vitale di un’organizzazione razionale delle funzioni pubbliche – propugnata da Max Weber come principale strumento per il conseguimento di fini prefissati – rientra così dalla porta principale. Senza di essa, i buoni precetti etici e morali vengono conculcati e relegati sullo sfondo, come in effetti oggi accade in Italia; le belle qualità individuali, anche se presenti in modo massiccio negli uffici pubblici, non fanno sistema; al contrario esse vengono avvertite come lodevoli eccezioni in un panorama complessivo valutato dai cittadini come moralmente e civilmente ingiusto. La razionalità weberiana diventa così uno dei supporti indispensabili affinché si realizzi il pieno dispiegarsi della buona coscienza individuale nella realtà delle pubbliche amministrazioni italiane. Hic Rhodus, hic salta!

Settembre 2020. Giuseppe Beato