Nel precedente capitolo avevo sostenuto che la differenza tra i riti di guarigione e l’esperienza analitica sembra risiedere nello sforzo operato in quest’ultima di vincolare l’elaborazione primaria suscitata dal transfert e dalle rievocazioni ad un processo elaborativo secondario che attenui le ripetizioni rinforzando le catene associative dell’Io.

L’esempio seguente vuole mostrare un caso in cui alcune trasformazioni si attivano tramite un materiale culturalmente codificato, che facilita la metabolizzazione psichica di certi vissuti.
Si tratta delle ninna nanne, i canti usati per aiutare i bambini a lasciarsi andare al sonno vincendo la paura della separazione che porta con sé angosce defusionali. I loro testi sovente si organizzano, sia pur in forma implicita, intorno ai grandi temi della sessualità, fame, guerra, morte.
In Italia, le ninna nanne tradizionali sono confuse ad altri testi, come le preghiere, i canti funebri o d’amore, le filastrocche, a loro volta usati per indurre il sonno. Tale materiale si può definire un genere perché è prodotto in una costante situazione di maternage in cui una persona parla a un bambino mentre si sta addormentando. Lo scopo di favorire il sonno è raggiunto con la dolcezza melodica e il dondolamento; le parole invece non sembrano indirizzate a chi ascolta, spesso un neonato, quanto a chi le proferisce.
In una ricerca da me condotta 1 , mi sono chiesta se l’insieme di rappresentazioni preconsce trasmesse a un bambino molto piccolo, in un’interazione carica di affetti, possa in seguito divenire un insieme mnestico, estremamente arcaico, in cui gli elementi culturali si intrecciano alle dinamiche della relazione materno infantile.
Un insieme a cui il bambino attingerebbe nella progressiva organizzazione dei dati di realtà; le ninna nanne infatti danno informazioni sulla vita quotidiana, su episodi storici, leggende, gesta di santi, guerre, amori, tradimenti. Hanno la caratteristica formale di organizzare il materiale in modo frammentario, un poco come le fiabe, in una dimensione ludica del parlare che predilige le assonanze, le allusioni, i giochi di parola. Eccone un esempio raccolto in Toscana:
Ninna nanna al mio ciocione e di pane non ce n’è un boccone. Né del crudo né del cotto né del macinato troppo. Ninna nanna al mio bel pupo il mugnaio non è venuto lo potesse mangiare il lupo e il lupo e la lupaia gli venisse l’anguinaia. L’anguinaia l’è mala cosa e più su ci sta una sposa. E più giù ce ne sta un’altra una fila ed una annaspa. L’altra fa il cappellino di paglia per portarlo alla battaglia. La battaglia e il battaglino dettero fuoco a Barberino. Barberino corri corri dette fuoco a quelle torri. Una torre la si spezzò e il bambino si addormentò.”
Il tema si sviluppa intorno ad un’immagine di deprivazione alimentare, quasi di carestia che innesca una serie di maledizioni sempre più generali. Per contrappasso, al mugnaio si augura di essere divorato dal lupo, a questo e alla sua consorte di prendersi la peste.
La peste evoca le tre “spose” che filano, le parche responsabili delle morti e delle guerre, come quella di Barberino, la città dalle cento torri, distrutta nel medio-evo. Infine, il crollo della torre, vinta dal nemico, diviene un’allegoria della caduta nel sonno, che ricorda certi simboli presenti nei racconti di fate, interpretati da Roheim come indizi di un terreno comune tra fiabe e sogni.
Ecco, ad esempio, il sogno di un’analizzata fatto poco dopo aver subito un’operazione chirurgica che aveva comportato un’anestesia totale: “Sono nella casa della mia infanzia, ad un tratto il tetto comincia a crollare e con lui precipitano tutti i mobili del piano superiore; mi appoggio al muro perimetrale mentre tutto intorno a me va lentamente a pezzi”. Il sogno, considerato dal punto di vista formale, riflette la reazione al sonno senza sogni provocato dall’anestesia, che viene rappresentato nel contenuto manifesto come una caduta e perdita del contenitore utero-infantile “casa” e indica il tentativo psicobiologico di ristabilire la soglia omeostatica perturbata dai farmaci e dall’intervento chirurgico. Si potrebbe definire un soprassalto della pulsione di vita che suggerendo al sognatore che non si può tornare indietro verso la casa-utero, lo spinge a separarsi dal desiderio fusionale. Un altro sogno, della stessa persona, avuto mesi dopo: “Sono nella casa della mia infanzia, giro per le stanze vuote e polverose, abbandonate da anni e all’improvviso mi rendo conto di aver dimenticato lì alcuni cuccioli del mio cane, da chissà quanto tempo. Penso con angoscia che li troverò tutti morti di fame, ma poi mi si insinua un’immagine di loro, riusciti a sopravvivere nutrendosi sempre di meno, come se avessero potuto vivere quasi di niente”. Nuovamente una rappresentazione di carestia e morte che funziona come segnale per disattivare una spinta fusionale: chi torna indietro non trova che desolazione ed un utero che non nutre più.
Il codice alimentare utilizzato all’inizio del mio esempio di ninna nanna é usuale in questi canti; rappresenta l’oggetto pulsionale della la fase orale in cui è immerso il neonato, sia l’identificazione di chi canta all’oralità del bambino. Tuttavia, poiché la ninna nanna viene cantata nel momento della separazione, più o meno difficile, tra una madre e un bambino, la fame ne potrebbe essere una metafora.
Il desiderio di allontanarsi, separarsi, percepito come pericoloso, si esprime mescolato alla paura. E questa risorge ad ogni separazione reale, nel bambino come nella madre.
Il bambino per il quale si costruisce lo scenario fantasmatico del canto, ha proiettato sulla madre-ambiente un vissuto di mancanza di nutrimento per attivare la spinta a cercare altri luoghi, cioè ha imparato a distinguersi dalla sinapsi feto-materna uscendo così dal narcisismo primario. La condizione di ripiegamento narcisistico provocata dall’addormentamento che comporta, questa volta, una separazione dalla madre reale, riattiva il conflitto; di fatto però chi si allontana è colui che si addormenta, così come all’inizio fu colui che nacque.
Tuttavia sembra sempre necessario costruire una situazione in cui, per proiezione, si viene cacciati. I personaggi responsabili della fame si costruiscono per spostamento-condensazione: dal padre-mugnaio, alla coppia (genitoriale) di lupi feroci. Allo stesso modo, la guerra uterina si trasferisce nel mondo esterno e colora dei suoi vissuti le battaglie storiche. Infine, le tre parche, quelle che filano i giorni dei mortali, nel mondo romano divinità sovrintendenti la nascita; quasi un cerchio che si chiude sulla necessità della morte-ritorno al luogo originario, qui contrassegnata da un supporto percettivo che è la caduta nel sonno.
Il bambino riceve insieme al canto una particolare intonazione vocale della mamma e alcuni frammenti della sua cultura. La voce é il canale sensoriale della relazione, dalle infinite sfumature; le parole, memorizzate prima di essere comprese, contengono brandelli di vita, mescolati ad affetti. Contengono anche quei vissuti che il piccolo ha cercato di allontanare da sé, dei quali la madre si è appropriata metabolizzandoli e restituendoli al figlio in forma meno spaventosa. Il testo, a tratti terribile, delle ninna nanne potrebbe rispecchiare i vissuti terribili dei neonati, espressi con gli stessi codici: l’oralità, l’oscillazione tra amore e odio, la scissione, la perdita, eccetera.
Da questo punto di vista, la ninna nanna usa un linguaggio analogo a quello onirico; disegna immagini frammentate, polarizza l’attenzione su temi arcaici, come il conflitto tra vita e morte, fa parlare di cose lontane, condensa, sposta l’attenzione, camuffa, come il sogno. Si adatta perfettamente a quel particolare stato d’animo, sospeso, comunemente suscitato dall’ accudimento di un bimbo che sta scivolando nel sonno.
Un altro esempio, raccolto in Sardegna, il cui testo è a prima vista incomprensibile: “Antonio Antonio il cavallo mi muore, il cavallo della stalla corre come una fucilata, una fucilata intorno al pozzo. Antonio Antonio mia mela pibera, suona alla mia porta, mela sul ramo, mela sotto la foglia, che ti sentano tutti. Antonio moiteddu, che possa morire nella mia mano, nella mano del porcaio. Hanno ucciso il porcellino, il porcellino irsuto, in onore del Santo glorioso.”
Il Santo citato è S. Antonio, festeggiato il 17 gennaio in una delle commemorazioni più spettacolari dell’Isola. In questo giorno in ogni paese si tagliava una grande quercia, portata poi nella piazza su un carro carico di frutta, fiori e aromi, accompagnata da uomini a cavallo che cantavano inni sacri sparando colpi di fucile. Al tramonto, un sacerdote aspergeva la pianta con acqua benedetta e dava fuoco al legno; iniziava, con una gara a cavallo, una vera festa pagana: per tutta la notte si danzava al suono delle “launeddas” un ballo chiamato “bicchiri”, in attesa di mangiare il maialino ucciso in piazza e cotto dai porcai, offerto a tutti su un pane particolare, impastato con il miele. Di questo se ne conservava un pezzetto perché era ritenuto dotato di grande potere nello spegnere gli incendi. 2
L’appellativo “moiteddu” rimanda a un cesto di sughero in cui si raccoglieva il miele, lo stesso utilizzato nella costruzione dei mamutzones, le maschere indossate a partire dal giorno di S. Antonio per invocare la pioggia. La parola è stata ipotizzata essere di derivazione greca, da un termine che designava il cesto utilizzato nei riti dionisiaci. La danza “bicchiri” è stata confrontata a quella ballata dai Greci in onore di Dioniso intorno a un animale sacrificale che rappresentava il dio: “Boucheros”. In Sardegna vi era una divinità chiamata “su bikk’e oro”, il vitello d’oro.
Ricordo che nel mito il dio Dioniso viene smembrato e arrostito dai Titani; la sua uccisione, in analogia ai grandi cicli agrari di morte e rinascita della vegetazione, apre al genere umano il ciclo delle nascite e della generazione. Un animale sacrificale prende il posto della divinità o del santo e viene ucciso in sua vece, rappresentando così un bambino smembrato e mangiato. 3
Una tale concatenazione aggressivo sessuale di elementi orali, anali, fallici, si spiega considerando il contesto comunicativo nel quale si usano le ninna nanne. La madre per cantarle prende dal patrimonio di testi quello che è maggiormente in risonanza con il conflitto presente. Usa il canto difensivamente per attenuare l’angoscia suscitata dall’intrecciarsi delle spinte distruttive con quelle di conservazione nella relazione con il figlio. Allo stesso modo, il bambino che ascolta, sente non solo il canto ma la sua intonazione affettiva ed il riverbero pulsionale.
Il testo non parla affatto a un bambino, eppure l’armonia melodica unita all’assonanza metrica lo rendevano, a me che non ne conoscevo il significato, un bellissimo canto notturno. Di nuovo, ci si trova in presenza di quella che Severi ha definito “illusione percettiva guidata”, uno spazio sensoriale che dà alcuni segnali chiari di calore e dolcezza, utili a consolare il pianto, uniti a segnali ambigui, le parole incomprensibili, tese a descrivere una festa di morte e rinascita.
Appaiono così due vicende parallele, una esprime la tonalità affettiva della relazione, l’altra si riferisce a un mondo estraneo, in cui l’affetto lascia il posto a immagini terrificanti, implacabili.
Si direbbe quasi che la donna, nell’evocare dentro di sé quelle risonanze, si sia appropriata dell’angoscia senza confini di cui parla Bion, che nel bambino viene espressa in questo caso dalla paura di addormentarsi. E l’abbia collocata lontano, in un canto tradizionale, trasformandolo in un contenitore mnestico, vale a dire, un insieme coerente di elementi che si conservano nel tempo. Ha cercato di dare voce alla sua capacità di lasciarsi andare insieme al bambino e il canto le ha fornito il linguaggio iconico.
Ma qual’é l’esperienza del figlio? Certamente la prima esperienza è non verbale, connessa alla qualità dei vissuti. Tuttavia, egli memorizza le immagini suscitate dal canto e le organizza associandole all’eco della relazione, alla qualità pulsionale del periodo in cui le ha assorbite.
Allora quando andrà alla festa di S. Antonio, le corse a cavallo, le fucilate, i cibi speciali, non saranno nuovi per lui, bensì l’apparizione nel mondo esterno di oggetti già inseriti in un insieme rappresentazionale affettivo.

© Manuela Tartari

 

Note:

1 Finanziata dall’EHESS e in seguito divenuta oggetto della mia tesi di D.E.A. in antropologia culturale, con il titolo: Les berceuses en Sardaigne, Parigi, 1993. 
2 Cfr. G. Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, Meltemi, Roma, 1997. 
3 Cfr. D. Turchi, Maschere, miti e feste della Sardegna, Newton Compton, Roma, 1990.