(Il contenuto di questo articolo é stato presentato al XXIV Valcamonica Symposium nel 2011)
In questo breve scritto desidero parlare di immagini, di immagini animali e del loro posto nel patrimonio filogenetico, di immagini oniriche e del loro ruolo nella elaborazione del senso di realtà. In particolare, prenderò ad esempio la raffigurazione del cielo stellato a partire dalla preistoria, per giungere, in una sintesi rapida e non esaustiva, alle soglie del mondo greco. Mi ha infatti colpito la costante associazione degli astri a figure animali e me ne sono chiesta il significato.
La generazione delle immagini oniriche é descritta da Freud nella “Interpretazione dei sogni”. Freud interpreta il sogno come la realizzazione mascherata di un desiderio inconscio, un processo che si snoda tramite il recupero notturno di un materiale visivo (e uditivo) proveniente dalle esperienze sensoriali e associato a vissuti scaturiti nella vita di veglia. Freud individua una forma inconscia di elaborazione che si svolge in ogni momento della vita determinando la trasformazione dei pensieri in immagini e delle immagini in pensieri, secondo le leggi primarie della condensazione e spostamento.
Si delinea un processo che vede l’apparato psichico impegnato in prima istanza a trascrivere sotto forma di tracce mnestiche l’effetto generato dalle impressioni sensoriali. Tali tracce si organizzano in rappresentazioni (di cosa). Il passaggio dal fuori al dentro, dallo stimolo percettivo alla sua rappresentazione, vede già l’agire di un sistema di elaborazione che fa leva sul principio del desiderio e quindi sulla spinta ad abbassare le tensioni interne. Bolmida (2011) considera la vita onirica come primo motore per la formazione del patrimonio di immagini prevalentemente visive il quale cerca in seguito una forma di raffigurabilità all’esterno, nella vita di veglia. L’autore mette in evidenza la presenza di una incessante attività allucinatoria che tenta infaticabilmente di raffigurare, materializzare e porre fuori dal soggetto quella “infinita catena di spostamenti che dall’Inconscio si muovono verso la Coscienza”, allo scopo di formare una auto-rappresentazione dei processi psico-biologici che compongono l’essere umano. Quindi l’uomo diventa autocosciente quando estroflette i sogni nella realtà esterna e li può osservare, manipolare, mettere in parola, pensarli e farne le basi culturali della sua tribù. Il ponte tra sogno (inconscio) e realtà (vita vigile) sarebbe rappresentato da immagini oniriche attivate e inviate nel mondo esterno attraverso le raffigurazioni e le parole.
Fuori dall’ambito psicoanalitico, per tentare una sintesi circa il ruolo delle immagini mentali nei processi di conoscenza del reale, dobbiamo riferirci a Bateson (Bateson 1979) che postula l’esistenza di una “struttura che connette” tutta la materia vivente, per giungere alla considerazione che la mente e quindi il conoscere sia “una piccola parte di un più ampio conoscere integrato che tiene unita l’intera biosfera”. Il tentativo di rendere autocoscienti le regole dell’universo delle quali partecipiamo, di intuire quella “struttura che connette”, genera secondo Bateson il senso del sacro e avviene nella regione mentale che crea i legami tra le immagini.
Per tornare rapidamente al mio tema, prenderò in considerazione il lavoro di un grande storico dell’arte, Gombrich, circa la percezione delle immagini: una importante parte del processo percettivo é resa operante dalla proiezione. L’esempio più semplice di tale processo è rappresentato dai quattro punti inseriti in uno spazio bianco a segnare gli angoli di un quadrato che noi vediamo anche se non é presente. Sono i quattro punti a guidare l’interpretazione, o meglio, la proiezione.
Proiettare significa, prima ancora di attribuire un significato all’immagine percepita, divenire capaci di tradurre le indicazioni statiche disposte su una superficie, in segnali di movimento e di profondità (Severi 2011). Dunque, osservare e capire un immagine non é affatto un processo percettivo passivo in base al quale una raffigurazione “entra” nella mente; noi siamo colpiti da stimoli percettivi e li inseriamo in un contesto per assegnare loro un significato a partire dalle connessioni che la mente opera tra il segnale e le informazioni già possedute. Interpretare e ricordare sono quindi atti di pensiero molto vicini, come pure sono vicini a quella parte della mente che conserva le tracce mnestiche inconsce, le stesse che vengono utilizzate per organizzare gli scenari del sogno.
Il bisonte di Lascaux prima di finire sulla roccia é transitato nella mente del suo incisore, anzi nella sua memoria in un modo assai complesso. Gli esseri umani che guardandolo vedevano proprio un bisonte e non solo una serie di linee curve riempite di colore, avevano elaborato spontaneamente una convenzione che consentiva ad esempio di ridurre un corpo tridimensionale a figura piatta. Tale riduzione comporta grandi rinunce ma apre tutto un mondo nuovo, quello delle immagini generate dalla mente e non copiate dal mondo sensibile. Il bisonte era poi identificato solo con alcuni tratti della sua figura, altri scomparivano e nonostante ciò rimaneva un bisonte. Inoltre il suo movimento era trasferito in alcune poche indicazioni grafiche: una zampa piegata, la posizione del corpo, ecc. E comunque restava un animale in corsa.
Padronanza di una tecnica pittorica, memoria condivisa, tradizione culturale che orienta nella decodificazione delle forme rappresentate, ci appaiono, come spiega Severi, le premesse cognitive alla produzione delle incisioni rupestri.
Ora posso finalmente chiedermi quale sia il ruolo assegnato alle immagini animali, particolarmente quelle incise a partire dalla preistoria: credo che gli animali rappresentati siano i portavoce, per dirla alla Bateson, di una ricerca di connessioni tra uomo e ambiente.
L’immagine animale risulta inoltre un contenitore a base onirica delle grandi proiezioni e identificazioni umane. L’ attività immaginativa che si organizza nel sogno, ha bisogno di “resti diurni” per addensarsi in una serie di raffigurazioni e mettere in scena un canovaccio adatto a esprimere in modo allucinatorio e far defluire i desideri inconsci.
Il pantheon animale sembra essere stato il grande resto diurno della preistoria. L’animale lungamente osservato e usato diviene un oggetto mentale privilegiato e sulla sua immagine si concentrano quei processi di condensazione e spostamento che la demoltiplicano fino a renderla luogo delle identificazioni e proiezioni umane concernenti le grandi dicotomie, animato-inanimato, vita-morte, maschio-femmina, predatore-preda, in altre parole, le dinamiche pulsionali. Le azioni animali, espresse nei sogni, nei miti e raffigurate su rocce e pareti, daranno vita all’infinito ciclo di variazioni sul tema (umano) della sessualità e aggressività, proiettato e quindi manipolato, elaborato, addomesticato.
Più in superficie, l’animale diviene un oggetto-metafora e si presta a rappresentare fenomeni complessi, come ad esempio la magia dello sciamano, la potenza del cacciatore, la regalità, la continuità filogenetica tribale ed anche i fenomeni celesti.
Il connubio tra uomo e animale si pone tuttavia sin dagli albori come un legame intriso di ambivalenza: da una parte esso conserva le tracce di un sogno simbiotico che può anche evocare un paradiso perduto in cui tutti gli esseri viventi avrebbero parlato una lingua comune e sarebbero vissuti in pace ma dall’altra diviene scenario per agire i fantasmi cruenti del divoramento, alimentati dalle attività di caccia. L’uomo sapiens man mano che organizza la propria concettualità, patteggia le ambivalenze interiori costruendo legami simbolici e fantastici con il mondo reale, in particolare con il regno animale, a lui più affine per fisiologia, morfologia e comportamenti istintuali. Il sapiens rappresenta gli animali, gli ibridi, e meno gli umani, proprio perché, a mio avviso, cerca una immagine che non evochi se stessa ma dei fasci di relazioni.
Niente di strano dunque se gli animali sono stati proiettati anche sulla volta celeste e hanno prestato la loro immagine alle costellazioni. Volgiamoci ora al cielo e al suo modo di essere percepito.
Sin dalle origini, il sapiens ha posseduto una capacità logico deduttiva, la quale tra l’altro offriva la possibilità di eseguire misurazioni e computi, e una capacità simbolica che lo spingeva a generare metafore. Ambedue queste competenze entrano in gioco nel rapporto con il cielo stellato.
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N°1: Osso di renna- 30.000 anni a.C. Un calendario lunare? |
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In esso si colgono molti e diversi fenomeni: per primi, i movimenti ciclici degli astri, sole, luna e stelle; si osserva il corso delle costellazioni lungo la fascia zodiacale che interseca il corso del sole e della luna, il cammino delle stelle lungo la via lattea, il vagabondare dei pianeti, il ruotare delle stelle circumpolari introno a un astro che funge da “perno” del cielo.
Insomma, la volta celeste appare come uno schermo pieno di oggetti in movimento e il movimento diviene misura del tempo, sia reale che mitico. Il tempo appare come una distanza percorsa, ad esempio da una stella, oppure come un ciclo di eventi ricorrenti (Leach 1992). Distanza e ciclicità divengono categorie mentali e si attiva una spinta alla misurazione sistematica.
Lo studio di molti reperti preistorici lascia ipotizzare la presenza di questa attività di misurazione; l’associazione tra oggetti celesti e forme animali può a sua volta essere studiata (Brusa Zappellini, 2010). Similmente, molti ricercatori hanno colto l’orientamento di costruzioni megalitiche e di incisioni all’interno delle grotte mettendoli in relazione al corso del sole (Cossard 2010).
Un esempio di tale comportamento di misurazione lo vediamo nella sequenza di segni incisi su un osso di renna, datato a 30.000 anni fa (Immagine n°1) che é stata interpretata come un calendario lunare lungo il quale si incontrano la luna piena, quella nuova e tutte le progressive apparizioni della falce (Salza,1997).
Nel Paleolitico superiore si trovano centinaia di reperti che portano sequenze di segni, quelle più brevi possono coincidere con le fasi lunari e quelle più lunghe con il trascorrere dei mesi lunari. Altri reperti conservano raffigurazioni animali che potrebbero rimandare alle costellazioni. (Marshack 1991).
Se consideriamo molto brevemente i diversi reperti che sono stati interpretati come raffigurazioni di astri, notiamo che vi sono due tipi di segni, un tipo é astratto e risulta, almeno inizialmente, uno strumento di computo; l’altro tipo é metaforico e fornisce materia per costruire legami tra diversi oggetti di pensiero, quegli stessi legami di cui parlava Bateson e che mi sembrano il ponte tra attività onirica e realtà esterna.
L’immagine animale prestata alle vicende celesti é del secondo tipo. Si snodano così le tracce di due diversi processi di pensiero, il primo osserva, misura, prevede; il secondo racconta, sogna e tesse legami tra eventi. Gli eventi si misurano ma i loro legami no e invece sono messi in scena.
Per la collocazione di immagini animali sulla volta stellata, deve essere capitato qualcosa di simile al quadrato di Gombrich: le stelle, sullo sfondo scuro del cielo, hanno fornito lo stimolo percettivo atto a suscitare una proiezione. Queste proiezioni hanno alcune caratteristiche: troviamo animali che interagiscono con altri animali e generano delle sequenze di azioni articolate lungo l’asse zodiacale. Le azioni sono ricorrenti e determinano un calendario annuale scandito dai punti degli equinozi e dei solstizi. Ad esempio, la comparsa delle Pleiadi, nella Preistoria, segnava l’equinozio di primavera; l’Orsa presta la sua immagine alla costellazione omonima da 15.000 anni (Hack, Domenici 2010) e genera un gruppo di miti che la collegano ad altre costellazioni limitrofe. I miti incorporano sovente una concretizzazione del tempo che possiamo rintracciare nei loro protagonisti, ad esempio la chimera, che per Graves potrebbe rappresentare eventi articolati nelle tre stagioni in cui l’anno era ripartito, simboleggiate dai suoi tre animali: la primavera (il leone), l’autunno (la capra) e l’inverno (il serpente). Di più, l’unione delle stagioni può per estensione rappresentare, in una unica forma, l’intera volta celeste rotante (Brusa Zappellini, 2010)
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N° 2. 3 : Kudurru mesopotamici che mostrano simboli astrali |
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L’osservazione del cielo genera la spinta al computo astronomico, probabilmente fissato tramite tacche e segni lunisolari. Quelli legati al sole ne segnalano l’azione della luce tramite i raggi fuoriusciti dal suo centro, raggi che diverranno proprietà anche delle stelle. I raggi, più tardi, possono venire sostituiti da cerchi, vortici, spirali, zig zag (Pierantoni 1994).
La percezione di gruppi di stelle viene fissata in immagini animali per mettere in relazione fenomeni diversi con diverse evoluzioni temporali, come il moto congiunto di gruppi di costellazioni. La stella poi si separa dal suo animale ma vi rimane associata, come poi si assocerà a creature antropomorfe rappresentanti regalità o divinità. Le stelle popoleranno molte scene rappresentate, a evocare la presenza contemporanea di diversi livelli mitopoietici, compreso quello ultraterreno. Gli animali passeranno in seconda fila ma restano come oggetti-memoria a sostanziare il mondo delle identificazioni e delle relazioni.
Consideriamo qualche esempio:
In Mesopotamia, nei kudurru, i cippi confinari del III e II millennio a. C. si notano già figure zoomorfe che si possono identificare agli astri (Immagini n° 2, 3).
Nelle immagini rupestri neolitiche del Fezzan e dell’Atlante sahariano si ritrovano numerose figure di bovidi recanti fra le corna rappresentazioni di soli, lune e (Brusa Zappellini, 2010) . Anche la testa di toro rinvenuta a Ur, datata alla fine del IV millennio e interpretata come grande simbolo dell’equinozio di primavera, ha in fronte una mezzaluna (Immagine n°4)
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N° 4: Testa di toro. Ur, IV millennio a.C. |
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Intorno al 4500 troviamo a Samarra l’immagine di un toro sormontato da una stella: secondo Pierantoni la luce sta acquistando la libertà di staccarsi dal luogo o forma in cui é nata e può uscire all’aperto. Sempre a Samarra e nello stesso periodo, qualcuno ha dipinto in un vaso degli uccelli in volo e sette stelle. Nel 3500 in Luristan un “signore degli animali” spalanca le braccia e mostra il suo profilo di uccello rapace. Sotto ha una stella.
In una placchetta rinvenuta a Tello, datata intorno al 3000, un leone sta addentando al collo un toro. Tra le corna del toro brilla una stella. La sua posizione rimanda alla lotta tra leone e toro che da sempre ha avuto luogo nei cieli, “Forse – commenta Pierantoni – é la più antica mappa stellare che si conosca.” E ancora: “Prima di diventare segno scritto, le stelle hanno già conquistato una loro morfologia complessa e variabile, ricca di allusioni, di dati scientifici, di riferimenti percettivi, di metafore delicate” (Immagini 5 e 6).
Le costellazioni hanno una forma animale composita: sono animali che compiono azioni e forse inizialmente erano sempre pensate così, come esseri viventi in movimento. I nomi delle costellazioni zodiacali sono sumeri: il primo, nostro Ariete, suona come pecora. Il secondo Toro, il terzo i Gemelli, due divinità, poi il Granchio o Cancro, il Leone, la Vergine, indicata con un termine che significa Solco o Aratro: una donna che tiene in mano una spiga, poi la Bilancia a due braccia, lo Scorpione, simbolo di fertilità, il Sagittario associato a una divinità, il Capricorno, che vuol dire pesce capra, l’Acquario, come il dio Ea, signore delle acque. Un ultimo segno: rondine, code.
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N° 5.6: Scaglia di conchiglia, su un lato la lotta siderale tra leone e Toro. |
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Gli animali cristallizzati nelle costellazioni perderanno tuttavia la loro autonomia e verranno assoggettati alle grandi cosmogonie assiro babilonesi dove i destini di cielo e terra si intrecciano a quelli dei grandi dei che li rappresentano e in un lungo processo di trasformazione verranno infine a simboleggiare il potere del sovrano nelle grandi città e nei grandi regni.
L’animale perde progressivamente la sua forza di attrazione mitopoietica ma non la capacità di catalizzare in sé proiezioni ed identificazioni. Una società che ha già la padronanza sulla domesticazione di animali e vegetali non ha più gli stessi resti diurni dei millenni precedenti ma il pantheon animale si conserva nelle tracce mnestiche profonde e alimenta la simbologia inconscia.
Flebili tracce del passato si rintracciano ancora in Omero nei cui poemi si conserva una lontana tradizione orale che canta un mondo animale per parlare d’uomini. Così ne dice Emilio Villa (Villa, 1964), quando fa risalire l’interpretazione degli attributi di divinità ed eroi presenti nell’Odissea a rituali minorasiatici, tramiti a loro volta di rituali mesopotamici, sumeri e accadici. Compare una antica teomachia della quale i personaggi omerici sono larve eroicizzate, ipostasi di arcaiche divinità preelleniche, amanti della Grande Signora degli Animali:”Tutte le femmine dee del poeta, tutte totemizzate, per così dire, tutte vive, su un animale residuato nel nome o negli attributi.” Come Atena che é civetta, Penelope l’anatra, Idotea un pesce marino, Elena cagna e, più in fondo, in filigrana le vicende di grandi costellazioni. L’intero poema si mostra intessuto di formulazioni astrologiche, basti da esempio il tema dei seguaci di Odisseo, finiti tutti male per aver mangiato i “tori del Sole”; mangiare questi animali stellari, pensati come un gruppo numericamente pari ai giorni dell’anno, avrà conseguenze nefaste che si irradiano dal cosmo sugli uomini: il Sole sottrarrà dal novero ciclico, cosmico, proprio il giorno del loro ritorno.
Bibliografia
• Bateson G. (1979) “Mente e natura”, edizioni Adelphi, Milano, 1984
• Bolmida P. Sansoni U. “Una sola specie, una sola lingua delle origini, la stessa latenza all’Arte”, in Arte e comunicazione nelle società preletterate, XXIV Valcamonica Symposium, 2011
• Brusa Zappellini G. “Alba del mito. Preistoria dell’immaginario antico”, Arcipelago edizioni, Milano, 2010
• Cossard G. “Cieli perduti. Le stelle degli antichi”, Utet, Torino, 2010
• Freud S. (1899) “L’Interpretazione dei sogni”, in Opere, vol. III, Boringhieri, Torino, 1967
• Hack M. Domenici S. “Notte di stelle. Le costellazioni tra scienza e mito”, Sperling & Kupfer, Milano, 2010
• Leach E.R. “Computo del tempo”, in: AAVV, Storia della tecnologia. La preistoria e gli antichi imperi, Einaudi, Torino, 1992
• Marschack A. “The root of Civilization”, McGraw Hill, New York, 1972
• Pierantoni R. “Monologo sulle stelle”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994
• Salza A. “Atlante delle popolazioni”, Utet, Torino, 1997
Psicoterapeuta, antropologa formatasi presso ‘Ecole del Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, membro didatta dell’Istituto italiano di Micropsicoanalisi. Ha collaborato per anni alle ricerche e alla didattica delle cattedre di psicologia sociale e psicologia dinamica, quando Nicola Peluffo insegnava alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino. Da più di vent’anni ha ricoperto incarichi di consulenza e collaborazione presso alcune ASL piemontesi per la psicoterapia infantile e il lavoro in ambito evolutivo. Oggi è consulente tecnico del Giudice presso i Tribunali di Torino. Tra le diverse pubblicazioni si ricorda: “Metamorfosi del corpo”, in: La terra e il fuoco, a cura della stessa autrice, ed. Meltemi, Roma 1996; “Dall’oggetto inconscio all’oggetto transizionale”, in Quaderni di Psicoterapia Infantile, diretti da C. Brutti, Borla, Roma 1997; “Antropologia e metapsicologia. Un confronto freudiano tra efficacia simbolica e elaborazione primaria”, in Etnosistemi, n° 7, anno VII, 2000; “L’immagine del corpo in adolescenza”, in Bollettino dell’Istituto italiano di Micropsicoanalisi, n° 36, 2006: “Controtransfetr e stati deliranti”, in Tabù, delirio e alucinazione, ed. Alpes. Roma, 2010; “La creatività tra psicoanalisi e antropologia”, in Creatività e clinica, ed. Alpes. Roma, 2013. La dott.ssa Tartari si è spenta in Torino nel 2020.