Quelle che in latino sono conosciute come formulae o signaturae (formule melodiche brevi di norma associate a una sequenza alfabetica priva di senso apparente) facevano parte degli apēchémata della musica bizantina e avevano una funzione precisa legata alla memorizzazione dei toni dell’októēchos bizantino.

Altra cosa erano le sequenze sonore vocaliche o consonantiche presenti sui papiri magici dei primi secoli dopo Cristo, probabili in-cantesimi dei quali non è ancora del tutto chiara né la pronuncia cadenzata né la funzione specifica. Ecco un esempio tradotto in latino:

Quoniam assumsi potentiam
Abraami, Isaaci et Jacobi, et magni
nominis daemonis , iaó, ablanathanalba , si-
ABRATHILAÓ, LAMPS, TÉR, IÉI, ÓÓ,
THEE. Fac domine, pertaóméch,
CHACH, MÉCH, IAÓ, OUÉE, IAÓ, OUÉE,
IEOU, AÉÓ, EÉOU, IAÓ
[1].

L’ipotesi più valida, trattandosi di testi in cui si invocano divinità, è che si tratti di parole di potenza; nulla vieterebbe di pensare alle formule come sequenze cifrate che nascondono la vera pronuncia del nome di un dio o di creature pneumatiche [2].

La ricerca di un senso nelle sequenze è un’operazione che abbraccia gli studi più disparati ma che tenta comunque, come è proprio della semiologia, di rimandare a un qualche cos’altro di simile che possa renderne comprensibili gli intenti. Una similitudine attendibile è stata rintracciata in ambito musicale grazie all’associazione vocale/pianeta/suono riportata in uno scritto di Nicomaco di Gerasa (I sec.) [3]:

 

A                     Luna               Nete [4]               re

E                     Venere            Paranete          do

Ē                     Mercurio         Paramese        si bemolle

I                      Sole                 Mese               la

O                     Marte              Lichanos         sol

U                     Giove              Parhypate       fa

Omega            Saturno           Hypate            mi

 

Sfruttando queste corrispondenze sembrerebbe più comprensibile interpretare le sequenze (perlomeno quelle vocaliche) come melodie vere e proprie e dare così maggior significato alla parola ‘incanto’: la scansione cantilenante e la pronuncia intonata hanno senz’altro agito sulla coniazione del termine. Plotino (204-270) scrive nelle Enneadi che “è proprio dell’anima essere attirata dagli incantesimi per la melodia, per certe formule e per la figura dell’incantatore: cose di questo genere, come figure e suoni commoventi, hanno una forza d’attrazione” [5]. Cornelio Agrippa (1486-1535), parlando della meravigliosa potenza degli incantesimi afferma che “Catone, nella sua vita rustica, impiegava alcune canzoni che si trovano nei suoi scritti per guarire le malattie del bestiame” [6].

Balza alla mente che per il pensiero platonico il degrado linguistico è in rapporto proporzionale con la sua distanza dalla sfera ideale: la conoscenza non si instaura solo con la pronuncia del nome, ma anche attraverso il rapporto che si ha con la sua idea. Risalire all’archetipo significa approdare a una e una sola realtà ontologica che funga da modello da cui deriva, per moltiplicazione dell’unità, la molteplicità propria di una lingua. Da ciò la difficoltà concettuale della conoscenza e, contemporaneamente, la paura legata alla pronuncia di un nome, soprattutto se riferito a realtà non materiali e più vicine alla sfera ideale [7].

Dal Libro dei morti conservato al Museo Egizio di Torino, raccolta eterogenea di formule magiche di varia origine, si ricavano moltissime informazioni relative a quanto detto. La cosa che si nota subito è quanto fosse importante la lettura recitata dei formulari da parte del Kheri-Heb, il sacerdote preposto all’accompagnamento della salma verso il sepolcro: il suono delle parole e la loro giusta vibrazione erano il discrimine per un corretto o meno accesso all’aldilà. L’incipit del papiro ci avverte subito dicendo esplicitamente che le parole verranno pesate, non solo per il loro significato ma anche nella loro corretta pronuncia; un po’ oltre, al termine del capitolo XLII, compaiono infatti le parole di potenza sconosciute ai non iniziati da pronunciarsi al termine della formula: Ababak-Rerek. Al termine del papiro, a suggello di tutta l’opera e a dimostrazione di una conoscenza esoterica dettagliata da parte dell’operatore, vengono scritti i nomi occulti di Ammon: “Baarkay è il tuo nome, Markathj è il tuo nome, Duplice Leone è il tuo nome, Na sakabubu è il tuo nome” [8].

Se considerato da un punto di vista religioso, può diventare relativamente complesso giustificare la liceità o, quanto meno, la differenza fra una formula sacra e la parola o la frase magica; sostanzialmente la base fra le due espressioni è comune (come lo è del resto quella tra bestemmia e preghiera a un dio: la differenza sta nell’intenzione). Il miracolo cristianamente inteso è, molto spesso, il risultato concreto di parole pronunciate con effetti causali e dirette a persone o ad oggetti precisi: la vibrazione sonora scaturita dalla pronuncia assume la qualità di strumento comandato psichicamente da un volere superiore e perde in parte la sua forza pneumatica di interazione con la materia.

La necessità di una trasposizione scritturale di suoni o parole magiche nacque senz’altro per ovviare ai problemi mnemonici all’interno dei gruppi sacerdotali; la riverenza nei confronti della parola [9] (spesso cifrata ma carica di significato e di potenza in presenza di una chiave di lettura) sarà una costante mantenuta nei secoli quasi fino ad oggi, anche quando di quella parola non si ha più capacità interpretativa.

“Non mutare mai i nomi barbari” [10] recita esplicitamente uno degli oracoli caldaici. Probabilmente l’uso dei nomi inconsueti (onómata barbariká) nelle formule magiche deriva proprio dal fatto che ci si concentrasse maggiormente sul suono e sul suo effetto piuttosto che su un significato autentico: le formule dovevano essere comprensibili alle potenze spirituali le quali, pur non parlando lingue umane, si sentivano attratte sentendo la pronuncia del loro nome segreto. Oltretutto alcune di queste formule magiche venivano tramandate oralmente con il rischio di storpiature sempre crescenti: ciò che noi oggi leggiamo sui papiri o sui codici rappresenta l’atto finale di tutti questi passaggi.

La cosa interessante è che lo stesso principio è stato rintracciato anche in culture molto lontane da quella greca e latina: nel poderoso testo di Martino Gusinde [11] dedicato ai Fuegini, popolazione autoctona della Terra del Fuoco, e citato da Ernesto De Martino ne Il mondo magico si fa presente che “lo stregone fa venire il suo spirito adiutore mediante il canto […] La melodia impiegata comporta solo minime modulazioni sulla base di una stessa tonalità fondamentale, le differenze di intensità sono soppresse nella mezza voce. Il tema resta sempre identico, solo il tono delle vocali ora risuona più sordamente, ora è più acuto. Ne risulta un ritmo a sbalzi, sì che a ogni inspirazione lo stesso tema torna di nuovo a stabilirsi con forza rinnovata. Un determinato contesto di parole non è alla base della melodia, ma si vedono solo serie di suoni, come ‘llololo… hoiyoiyoi…’ La melodia propria di ogni stregone si allontana da quella di altri suoi compagni di professione solo in particolari in essenziali, ma a ognuno essa comunica il passaggio allo stato di trance. E allora soltanto ha inizio la sua attività di stregone quando, come egli stesso dice, dopo un certo tempo non è più lui a cantare, ma la sua personalità seconda, la quale prende il canto e lo prosegue, sì che lo stregone presta solo la voce per il canto” 12].

Il discorso sulla musicalità della parola abbraccia ambiti temporali amplissimi: di recente mi è capitato di leggere alcuni scritti della poetessa Amelia Rosselli ed è significativo come l’intreccio di poesia e musica, esattamente come per moltissimi altri autori, sia fondamentale nella sua scrittura. Per definire la sillaba, per esempio, si serve delle scoperte scientifiche in ambito acustico e la descrive non come suono ma rumore, e così le vocali e le consonanti che uniscono le loro implicazioni timbriche a quelle grafiche. La diversità rispetto a ciò cui ci ha abituato la musica sta nel fatto che contemporaneamente alla fonesi, al ritmo e al timbro, nella poesia agisce, oltre alla iconicità, anche il pensiero. Quindi il suono o la pausa, identificabile con un ‘a capo’ o uno spazio, non è mai un assoluto ma rimanda sempre a un qualche cosa di ideale e ancestrale.

La mia conversione sonora di una formula vocalica è dunque mediata da tutto questo e propone la sonorizzazione sfruttando la tabella di corrispondenze di Nicomaco. Ho così trasformato in melodie due formule tra le moltissime presenti nel Papiro W (Excerpta ex libris apocryphis Moïsis) di Leida sulla scia del lavoro che Høeg prima e Wellesz poi fecero per tentare di rintracciare eventuali archetipi sonori di alcune melodie bizantine [13].

Questi i passi del papiro tradotti in latino che ho utilizzato altresì per la composizione di due brani di musica elettronica [14]:

Invoco te, veluti a nominibus masculis vocaris:

IEÓ, OUE, ÓÉI, UE, AÓ, EIÓU, AOÉ, OUÉ,

EÓA, UÉI, ÓEA, OÉÓ, IEOUAÓ.

Invoco te, veluti a nominibus foemininis vocaris:

IAÉ, EÓO, IOU, EÉI, ÓA, EÉ, IÉ, AIUO

ÉIAU, EÓO, OUÉE, IAÓ, ÓAI, EOUÉ, UÓÉI,

EÓA. Invoco te, veluti venti praenuntiant.

A questi link si possono ascoltare le formule:

Qui gli incantesimi trasformati in musica elettronica:

  • Incantesimo vocalico femminile:

https://open.spotify.com/track/6IFd1Enon0iDa3FDRkWR5B?si=8b63889e665244a3

  • Incantesimo vocalico maschile:

https://open.spotify.com/track/51sySR4lGZuro0NUAMCJLa?si=36a8845418a04250

 

@ Daniele Trucco

Note:

[1] Leemans, Conradus, Papyri Graeci Musei Antiquarii Publici Lugduni-Batavi, Lugduni Batavorum 1885, Tomo 2, p. 144.

[2] Per una più ampia trattazione dell’argomento cfr. D. Trucco, Suono originario: musica, magia e alchimia nel Rinascimento, L’Arciere, Dronero 2003; D. Trucco, La magia. Nei secoli e secondo Giordano Bruno, Atanòr, Roma 2019 (in collaborazione con Gianmario Ricchezza).

[3] Excerpta ex Nicomacho, Mus. Script. Graeci, ed. Jan, p. 277. 6.

[4] Nella teoria musicale greca la corrispondenza fra le corde dell’eptacordo e la loro altezza non è sempre concorde anche se la loro disposizione segue di solito questa sequenza:

Nete = Corda più acuta

Paranete = Penultima corda

Paramese = Corda vicina a quella centrale

Mese = Corda centrale

Likhanos = III corda

Parhypate = II corda

Hypate = Corda più grave

Data l’influenza che avrà questa suddivisione nella trattatistica musicale e alchemica successiva (si consideri anche il parallelismo che fa Aristide Quintiliano fra suoni musicali e cicli lunari nel suo De musica 3, 13) non ritengo ozioso elencare la suddivisione reale della scala greca. Negli Excerpta Nicomachi, attribuibili al pitagorico Nicomaco di Gerasa i suoni, «per chi si occupa di musica pratica, sono ventotto:

Proslambanomene – Ipate ipaton – Paripate ipaton – (Lichanos) ipaton enarmonica – (Lichanos) ipaton cromatica – (Lichanos) ipaton diatonica – Ipate meson – Paripate meson – (Lichanos) meson enarmonica – (Lichanos) meson cromatica – (Lichanos) meson diatonica – Mese – Trite sinemmenon – (Paranete) sinemmenon enarmonica – (Paranete) sinemmenon cromatica – (Paranete) sinemmenon diatonica – Nete sinemmenon – Paramese – Trite diezeugmenon – (Paranete) diezeugmenon enarmonica – (Paranete) diezeugmenon cromatica – (Paranete) diezeugmenon diatonica – Nete diezeugmenon – Trite iperboleon – (Paranete) iperboleon enarmonica – (Paranete) iperboleon cromatica – (Paranete) iperboleon diatonica – Nete iperboleon.

[5] Plotino, Enneadi, a cura di P. Henry e H.R. Schwyzer, Paris-Bruxelles, 1951-73, 3 voll., (trad. it. G. Faggin), IV 4, 40-4.

[6] C. Agrippa, De occulta philosophia, Edizioni mediterranee, Roma 1991, p. 131.

[7] Ho fatto notare altrove (Musica, creazione ed ermetismo nel tardo ellenismo, in «Maia», fascicolo I, Anno LXI, gennaio 2009, pp. 83-93) come all’interno degli antichi formulari di magia, siano contenute numerosissime parole completamente prive di significato o addirittura illeggibili a causa di interminabili giustapposizioni vocaliche e/o consonantiche. Particolarmente significative a questo proposito sono le formule magiche gnostiche utilizzate per il ringraziamento o l’evocazione di divinità. Scartando l’ipotesi (per altro possibile) della disposizione casuale dei fonemi, si affacciano due ipotesi interpretative altrettanto valide: quella dell’anagramma o della crittografia e quella della trascrizione melodica attraverso l’alfabeto.

Con la prima ipotesi si ripresenta l’impossibilità di pronunciare la parola di potenza: essa deve infatti essere mascherata, velata per mezzo di un filtro che ne attutisca il senso e la forza e, allo stesso tempo, non ne permetta la decifrazione da parte del profano. In un passo della Pistis Sophia ad esempio compaiono le frasi seguenti pronunciate da Gesù:

“Ascoltami padre! Tu, padre di ogni paternità, tu, luce infinita iaw. iouw. iaw. awi. wia. yinwJer. Jerwyin. wyiJer. nejJomawJ. nejiomawJ. maracacaxJa. marmaracJa. ihana. menaman. amanhi. del cielo (tou ouranou) israi. amhn. amhn. sarsarsartou. amhn. amhn. -xou xiamin. miai. amhn. amhn. iai. iai. touap. amhn. amhn. amhn. main. mari. marih. marei. amhn. amhn. amhn.

[…] Or dunque, padre, tu padre di ogni paternità, giungano coloro che perdonano i peccati! I loro nomi, sono: sijireynicieu. zenei. berimou. socabrichr. euJari. na. nai. dieisbalmhric. meunipoV. cirie. entair. mouJiour. smour. peuchr. oouscouV. minionor. isocoborJa.

Ascoltatemi mentre vi invoco! […] Conosco, infatti, le tue grandi forze e le invoco: auhr. bebrw. aJroni. h ourej. h wne. soujen. xnitousocrewj. mauwnbi. mneuwr. souwni. cwcetewj. cwce. etewj. memwc. anhmj” (Pistis Sophia, a cura di L. Moraldi, Milano 1999, pp. 733-734).

In queste sequenze, parole quali Thot o Seth (divinità egiziane), aha o saha (erigere, far stare su) o sophia sono facilmente ricavabili attraverso un anagramma. Nelle Tavolette di Maledizione latine, invece, le formule che si riscontrano sono molto spesso storpiature dei nomi divini ebraici Iahve o Iehovah: nella parte finale di uno scongiuro a un demone risalente al III secolo dopo Cristo e rinvenuta in una tomba, troviamo ad esempio la sequenza “Ιαω Ιasdaω οοριω. Αηια” (Defixionum Tabellae, A.M.H. Audollent, Paris, 1904, 286 B).

Si può affermare quasi con certezza che dietro a queste sequenze non si nascondono proposizioni logiche, bensì sillabe mistiche di richiamo nate da imitazioni di suoni naturali o da fusioni di fonemi ricavati da parole di potenza. Svelare il vero senso di una formula attraverso meccanismi combinatori può però lasciarsi alle spalle significati nascosti o criptati con sequenze diverse da quelle considerate: meglio dunque affiancare questo tipo di ricerca a quella sonora.

[8] Il libro dei morti degli antichi egizi, a cura di Boris De Rachewiltz, Edizioni Mediterranee, Roma 1986, p. 139.

[9] “La parola è una forza naturale, perché le varie parti del mondo si attirano naturalmente a vicenda e reagiscono scambievolmente le une sulle altre e il mago, invocando per mezzo delle parole, opera per mezzo delle forze atte della natura, conducendo certe cose per l’amore dell’una all’altra, o attirandole a causa del susseguirsi di una cosa con l’altra, o respingendole a causa dell’antipatia dell’una con l’altra, seguendo la contrarietà e differenza delle cose e la moltitudine delle virtù, le quali reagiscono, operano e forzano le cose mercé gli effluvi celesti”, C. Agrippa, De occulta philosophia, op. cit., p. 159.

[10] Oracoli caldaici, a cura di Silvia Lanzi, Mimesis, Milano 2001, p. 81.

[11] Gusinde, Die Feuerland-Indiäner, I, p. 753.

[12] De Martino, Ernesto, Il mondo magico, Einaudi, Torino 2022, pp. 87-88.

[13] Høeg, Carsten, La théorie del la musique byzantine, R.É.G. 35 (1922), 321-334; Wellesz, Egon, A History of Byzantine Music and Hymnography, Oxford at the Claredon Press, Oxford 1949, pp. 64-69.

[14] Leemans, op. cit., Tomo 2, p. 146.