Sommario
Presentato al XXII Valcamonica Symposium “L’arte rupestre nel quadro del Patrimonio Culturale dell’Umanità”.
Darfo Boario 18-24 maggio 2007.
Pubblicato sui Pre-atti editi dal Centro Camuno di Studi Preistorici.
“Non capisco quello che penso se non vedo quello che dico”.
(K. Weick)
Preambolo
L’intero percorso dell’umanità si è contraddistinto per gli innumerevoli tentativi messi in atto nella speranza di vedere realizzata un’idea, una fantasia o più semplicemente un desiderio intimo.
L’uomo nel suo immenso bisogno di muoversi e lasciare la traccia di se stesso ha prodotto il mirabile sforzo di cercare e, alcune volte di trovare, il significato delle cose che lo circonda. E, se da una parte la natura ci ha dotato di una prospettiva di sviluppo unica, lo sforzo di comprendere, di dare un significato alle cose, un nome per riferirle, ha compiuto quel miracolo che vede nell’azione continua a “tentare” l’eterna ricerca dell’uomo. È il comprendere per interpretare per addolcire la realtà, per facilitare il suo lento ma progressivo processo d’adattamento. Tuttavia l’uomo possiede un merito, non si stanca mai di tentare.
Oggi, sfogliando le immagini dei dipinti rupestri, ritroviamo gli stessi tentativi che l’uomo moderno applica nella sua vita di relazione. Sono cambiati gli oggetti, i soggetti ed il nesso causale che tengono insieme le situazioni, ma lo schema relazionale, il proto-modello, dai cui prendono vita i tentativi, è rimasto sempre uguale a se stesso. È continuamente soggetto alla logica ripetitiva che un tempo era la necessità alla sopravvivenza ed oggi, in modo più edulcorato, all’adattamento.
Nella logica dei tentativi l’uomo ha imparato a controllare l’ambiente intorno a sé. Lo ha reso più dolce, meno pauroso. È riuscito persino a descriverlo, a dargli un nome per identificarlo, per contenerlo in confini, i cui contorni definiscono il limite tra sé ed il mondo spaventevole esterno. In questo processo evolutivo ha dovuto compiere uno sforzo d’adattamento enorme. Per l’uomo tuttavia è possibile ipotizzare che, se non fosse riuscito a svolgere questo processo evolutivo, l’angoscia e l’incertezza, generata da un mondo pericoloso, non avrebbe trovato il contenimento attuale della razionalizzazione e nelle spiegazioni scientifiche che tanto ci piacciono. Contenere l’angoscia dunque, ma anche adattarsi, comprendere, dare senso e significato al mondo esterno è stata la strategia adotta fin dai primordi dell’uomo. Certo ci ha messo un bel po’ d’anni, ma per l’evoluzione dell’universo il tempo trascorso è davvero irrisorio.
Procedendo con la maturazione biologica e psichica, il processo di simbolizzazione ha reso evidente, interpretabile e condivisibile la realtà. Il segno ha acquisto il valore dell’oggetto, anche nella sua assenza e, se da una parte anche il tempo è diventato un oggetto di riferimento, ha facilitato il processo evolutivo nella mente del singolo e nella collettività, gruppo, clan, popolazione.
L’uomo acquisendo il dono della rappresentazione di cosa riconosce, ricorda ma soprattutto è diventato un costruttore di realtà.
L’uomo, costruttore di realtà, usa i simboli per mediare ed elaborare le percezioni di relazione ed oggetto e, come gli antichi uomini preistorici, lascia la traccia dietro di sé, come facevano sulla pietra i nostri antenati.
L’idea
L’idea che vorrei provare a condividere passa dunque attraverso le pieghe dell’immagine, per interpretare, in una prospettiva plausibile ma non assoluta, il significato psicologico profondo delle pittografie rupestri. L’idea, forse un po’ azzarda, consiste nell’interpretare le pittografie rupestri come un elemento simbolico che ha permesso all’uomo, nel suo articolato processo evolutivo, di dare un corpo alle sensazioni, impressioni o rappresentazioni psichiche, nel tentativo di interpretare condividere e controllare l’ambiente ostile.
In quest’accezione la rappresentazione della realtà, sulla base di rappresentazioni psichiche coscienti e riprodotte simbolicamente nella pittura, ha reso possibile il passaggio dal “passato remoto al passato prossimo” verso un “futuro in divenire”, diventando, la pittura rupestre, lo strumento che ha permesso nei processi ripetitivi primitivi l’attivazione di quelli evolutivi. È come a dire che i dipinti rupestri, come tutte le altre forme d’arte preistorica, hanno facilitato l’attivazione della memoria psicobiologica dell’uomo primitivo rendendo possibile la rappresentazione di un “cosa”, legato al mondo interno, e di un “oggetto o situazione” ambientale
L’immagine
Non penso che rappresentare la realtà per l’uomo primitivo sia stata un’impresa facile. Rendere comprensibile in un “tratto” un vissuto e soprattutto fare in modo che esprimesse per tutti gli stessi significati, ha visto impegnata la psiche umana nella costruzione di simboli articolati, presenti, prima ancora d’essere rappresentati in tratti condivisibili, nella mente della persona.
Forse il tratto, come lo scarabocchio del bambino molto piccolo, evidenzia un livello di strutturazione dell’immagine molto semplice ed arcaica, tuttavia esso è un segno che esprime, indipendentemente dalle caratteristiche reali, la forma della relazione con l’oggetto.
“L’immagine è la forma che organizza l’insieme di elementi (rappresentazione affetti) provenienti da canali sensoriali diversi, e che rende possibile la percezione della relazione interiore con l’oggetto” (Peluffo 1984).
Svincolata dall’oggetto il tratto è il proto-modello della relazione con altro, soggetto o ambiente che sia, e fissa gli schemi di relazione elementari che diverranno poi, per il genere umano, la struttura di un rapporto consolidato dalla ripetizione. Così il tratto, divenuto a questo punto un modello d’immagine, evolve, si raffina e si arricchisce delle esperienze individuali. Con il tempo, il segno iniziale, quel tratto originale di cui si parlava prima, è perso ma lo schema divenuto inconscio, mantiene il legame con l’oggetto. È possibile quindi che i tratti dei nostri antenati abbiano avuto la funzione di produrre o di ricostruire la relazione con l’oggetto, seppure in forma elementare, e che la ripetizione, attuata per tentativi innumerevoli, abbia formato poi il substrato sul quale dare vita alla relazione con il mondo. In questa prospettiva i dipinti rupestri come le altre forme d’arte, hanno facilitato il processo di simbolizzazione collettiva della realtà rendendo universale il segno.
Posso solo lontanamente immaginare le miriadi di tentativi che l’uomo ha dovuto mettere in campo per arrivare alla strutturazione di un’immagine rappresentativa di sé e della relazione che il suo sé ha avuto con l’oggetto esterno. E dico questo perché con la rappresentazione cognitiva conscia ed inconscia dell’immagine, l’uomo ha trascinato altre esperienze.
In primo luogo il tempo è diventato un’esperienza emotivamente significativa. Descrivere il tempo vuol dire raccontare di spazi vuoti, spesso lontani. Racconta d’attese, di ricerche, d’aspettative frustrate, spesso sostenute da un ricordo, un’immagine che ha tutto, meno il colore della realtà. L’immagine esprime in modo diretto la relazione con un oggetto non più presente e rimanda ad un’inesorabile perdita che è sempre presente nella mente delle persone. L’immagine è così un oggetto vivo. Forse per questo il Neandartaliano poneva del cibo accanto alla persona morta. Sapeva che la persona era morta ma per lui “non lo era veramente”. Era davvero in grado di astrarre un concetto come la morte o continuava nella realtà una relazione mantenuta dall’immagine interiorizzata? Allora è possibile pensare alle rappresentazioni pittoriche come il tentativo elementare di rendere reale ciò che sta nel mondo buio dei morti, dei parenti che sono vivi solo dentro.
L’atto creativo dell’artista primitivo era allora un’esigenza fisica, uno sfogo per contenere un mondo, forse più temibile di quello esterno perché le angosce e le paure non hanno un rapporto diretto con l’oggetto. L’uomo ha dovuto dare un corpo alle paure e le ha impersonificate negli animali feroci, nella notte (uno spazio senza confini). E poi ancora le ha rappresentate nelle innumerevoli produzioni artistiche a volte in modo diretto, altre volte esprimendo bisogni, desideri e sogni. Oggi, non esiste sulla terra un popolo che non ha una produzione d’arte. La creazione artistica è una caratteristica universale della specie.
Adesso, interpretare il simbolo come il ponte dinamico sul quale l’uomo ha costruito se stesso può non sembrare più tanto azzardato. Trasferendo le proprie esperienze in una raffigurazione semplice o complessa ha facilitato i processi di simbolizzazione, di memorizzazione e di scambio culturale. Ha, in qualche modo inventato se stesso e, attraverso la lente del tempo, ha dato la forma alle rappresentazioni che costituiscono i legami relazionali ed affettivi della specie.
© Ambrogio Zaia
Bibliografia:
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Ambrogio Zaia, laureato in Pedagogia ed in Psicologia, svolge l’attività di psicologo e di psicoterapeuta.