L’ipotesi che desidero discutere si pone al confine tra antropologia e psicologia, e potrebbe essere formulata come segue: Esistono dei modelli mentali, costruiti secondo le regole di un particolare processo psichico, il processo primario, i quali vengono utilizzati per elaborare delle rappresentazioni complesse. Le regole del processo primario cui faccio riferimento sono la condensazione e lo spostamento.
La possibilità di percepire oltre la forma strutturata di un oggetto o immagine l’agire di tali processi, permette al fruitore di entrare in risonanza con essi e partecipare alla trasmissione dell’oggetto lungo il tempo e le culture. Il tipo di risonanza, il modo di partecipazione ed il significato che un determinato oggetto o immagine assumono nel tempo ed al variare dei codici espressivi culturali, muta; quel che non varia è il dinamismo che ha generato il modello e dunque la possibilità per quel determinato oggetto di suscitare analoghi processi all’interno del soggetto.
Con la mia ipotesi non faccio alcun riferimento alle forme di “pensiero magico” che secondo alcuni autori avrebbero condotto i nostri antenati, ad esempio, a tracciare sulle pareti delle caverne immagini di animali per garantirsi una buona caccia; questo tipo di interpretazione sottintende una visione evolutiva del processo psichico che presuppone l’intervento di sistemi di spiegazione “infantili”, ovvero “primitivi”, in seguito abbandonati a favore di sistemi più evoluti ed adattati alla realtà. Condivido invece il principio in base al quale quando l’Homo sapiens cominciò a tracciare pittografie sulle rocce, le sue modalità di pensiero, di regolazione interna delle tensioni, di strutturazione psichica, erano quelle che ritroviamo ancora oggi, pur nel variare dei contenuti psichici..
Partirò dunque dalla propensione umana a generare immagini e quindi subito mi rivolgo a Sigmund Freud che descrisse mirabilmente la generazione delle immagini oniriche.
Nella sua opera “L’interpretazione dei sogni” 1 egli ha formulato una teoria generale del funzionamento dell’inconscio e del processo primario, che ci consente ancora oggi di costruire dei parallelismi tra la produzione dei sogni ed il funzionamento della psiche nella vita di veglia.
Freud è riuscito a mostrare che il contenuto manifesto di un sogno, ovvero ciò che ci si ricorda al risveglio, è la rielaborazione mascherata di un vasto insieme di associazioni le quali annodano rappresentazioni ed affetti in una dinamica fluttuante lungo le linee di maggiore o minore tensione psichica. Il sogno creerebbe delle immagini che consentono la realizzazione di un desiderio inconscio, allo scopo di abbassare la tensione dell’intero sistema.
Tale dinamica viene definita “pensieri del sogno”: “Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione…” (pag. 257).
Analizziamo più in dettaglio questo altro modo di espressione che si compone di alcuni meccanismi specifici, primo fra tutti la condensazione.
La condensazione delle associazioni, produce una rappresentazione che sta al posto di una serie di catene associative, “di cui costituisce il punto di intersezione”. 2
Il contenuto del sogno è laconico rispetto alla quantità di associazioni che lo hanno composto, ma non ne costituisce un riassunto: se il contenuto onirico, è una riproduzione incompleta e lacunosa dei “pensieri del sogno”, viceversa ogni suo dettaglio è sovradeterminato, cioè rappresenta più pensieri del sogno, e ogni pensiero conduce a più elementi del sogno. Questo duplice processo fa sì che non si possa dare una traduzione semplice, lineare delle immagini del sogno, bensì occorra partire da queste ultime per tornare alla rete intricata di pensieri latenti che le hanno generate. Analogamente ritengo che ciò valga per le rappresentazioni iconografiche di tipo espressivo, come le pittografie paleolitiche. Si potrebbero considerare le diverse immagini tracciate sulla roccia come sequenze iconiche che stanno in rapporto complementare con i sistemi di pensiero che le hanno generate, ovvero esprimono aspetti che il pensiero cela e, viceversa, ne omettono altri..
Il secondo meccanismo in azione congiuntamente al primo è lo spostamento: ciò che nei pensieri del sogno è il nucleo centrale, non viene necessariamente rappresentato nelle immagini, i cui contenuti sono centrati su altri elementi, sovente di minore intensità psichica.
Attraverso questi due meccanismi, il complesso di pensieri e ricordi “di intricatissima struttura” viene trasformato in immagini secondo codici espressivi particolari. Le immagini del sogno sono quindi il prodotto finale di un importante lavoro di selezione, deformazione, condensazione di una fitta rete di associazioni inconsce.
Il “lavoro del sogno”, come Freud ha definito tale processo di trasposizione in immagini, avviene per motivi di economia psichica, poiché il sognatore deve ubbidire ai dettami di una censura che non consente la libera realizzazione di un desiderio latente.
Lo stesso “lavoro” avviene per tutta la dinamica psichica che trasforma i processi inconsci, il libero fluttuare delle associazioni psichiche, in azioni, ragionamenti e pensieri consci, diretti a uno scopo ed in contatto con la realtà esterna.
La grande scoperta del funzionamento onirico risiede in una descrizione estesa a tutta la vita mentale, che mette in luce il continuo passaggio dal conscio all’inconscio e viceversa, compiuto tramite un’attività che modifica, condensa, sposta, rende accettabili alla coscienza quei materiali in diretto contatto con le tensioni ed i desideri profondi.
Tale lavoro, più che le immagini da esso create, è il centro dell’interesse della psicoanalisi, meno attenta di altre discipline ai contenuti manifesti, siano essi sogni, sintomi, prodotti culturali quali miti o materiali iconografici.
Il contributo che essa può portare alla conoscenza dei materiali culturali è strettamente legato alla sua competenza nel rintracciare la logica interna del processo che le ha generate.
Anche l’antropologia ha iniziato a cercare una definizione di cultura maggiormente centrata sui dinamismi latenti e difensivi, piuttosto che sui loro prodotti finali, quali essi siano. Così Obeyesekere 3 suggerisce che le regole di funzionamento dell’inconscio siano replicate nei processi di creazione di certi aspetti della cultura. Non si intende proporre una analogia tra il dinamismo culturale e quello psichico soggettivo, quanto piuttosto mostrare che se la nostra mente funziona in un certo modo, tale modalità di funzionamento lascerà le sue tracce, ad esempio nella elaborazione di rappresentazioni collettive: “If, however, the rules of the dream work are operative in the work of culture, then one might argue that the rules of the work of culture might also be operative in the former.”(Pag. 57)
L’autore prospetta l’agire di differenti livelli di simbolizzazione nel lavoro della cultura, alcuni più vicini ed altri più distanti dalle motivazioni inconsce che hanno innescato la formazione simbolica. Quest’ultima avviene, nella mente del bambino, attraverso un processo di identificazione che connette – sulla base di analogie formali – oggetti del mondo interno a oggetti del mondo esterno sui quali vengono proiettate qualità del corpo o di parti di esso, o relative funzioni.
Secondo la Klein 4 è il corpo della madre ed il rapporto che il bambino costruisce con esso ad essere proiettato nel mondo esterno: “Il simbolismo, dunque, non è solo la base di tutte le fantasie e sublimazioni ma qualcosa di più: è su di esso che si edifica il rapporto del soggetto con il mondo esterno e con la realtà nel suo complesso.” (pag. 250)
Questa attività di simbolizzazione che fonda la nascita del pensiero non può essere ridotta alla semplice traduzione di un simbolo nel suo (ipotetico) contenuto primario. Essa è una vera e propria modalità di funzionamento psichico che tende a costruire connessioni e
legami tra oggetti, funzioni e fantasie. In questo specifico senso, essa è presente anche nelle produzioni culturali, delle quali dunque non cercheremo una decodificazione lineare ma piuttosto le modalità operative di trasposizione da un livello profondo ad uno di superficie.
Il passaggio dallo psichismo individuale alle produzioni collettive avviene in modi assai complessi; senza entrare nel merito di un dibattito che coinvolge tutta l’etnopsicologia, vorrei portare il mio esempio che concerne la costruzione di una cosmografia, così come essa si può desumere dai miti, dai racconti epici e dall’iconografia della Grecia arcaica.
Cercherò di dimostrare che tale cosmografia viene elaborata secondo le regole della condensazione e dello spostamento.
Già V. Marinov si è occupato del ruolo della condensazione nella produzione artistica, in particolare in quella pittografica parietale. 5
L’autore ritiene che la condensazione, come ad esempio ci appare nella costruzione di figure che contengono parti di diversi animali o animali ed esseri umani, sia il frutto di un’operazione psichica che ha rimosso, cancellato, un’ immagine a forte contenuto angoscioso. 6
La condensazione che forma le creature fantastiche si basa, secondo questo studioso, su un’operazione di eliminazione di un elemento, alcuni dettagli del quale verrebbero spostati su un altro elemento estraneo al primo.
Fondandomi su materiali più recenti delle pittografie parietali, ma ancora connessi alla preistoria, cercherò di mostrare l’agire di questi meccanismi nella rappresentazione della cosmografia all’epoca di Omero. Essa prende le mosse a partire da un modello costruito su dati percettivi, il percorso del sole. Tali dati percettivi sono utilizzati come “resti diurni”, ovvero come elementi concreti, tessere di realtà. con le quali comporre un mosaico culturale che forma un’immagine ben più complessa che l’insieme delle sue tessere. Su questo primo modello del percorso solare si sono infatti stratificati altri percorsi, quello del sole in quanto divinità, delle anime dei defunti, quello dei sogni.
L’insieme di tali movimenti lungo un asse spaziale ellittico ha generato una rappresentazione del cosmo in cui è presente la percezione della sfericità, secoli prima che qualche pensatore ne fornisse una spiegazione ragionevole.
Tale percezione non ha prodotto un tentativo di comprensione dello spazio quanto piuttosto ha alimentato gli aspetti contraddittori della cosmografia. Si è verificato un incontro tra un dato sensoriale (la sfericità), desunto da esperienze diverse (ad esempio la scomparsa di una nave all’orizzonte, il corso ellittico del sole, ecc.) e un insieme di miti che mostrano la terra come un disco piatto.
Questo incontro ha generato la produzione di immagini paradossali come le creature chimeriche delle caverne, le quali vengono create per dare forma agli aspetti conflittuali che il mito, o meglio la cultura, esprimono. Aspetti conflittuali a loro volta intrecciati con le dinamiche profonde che investono la dimensione della perdita e del dolore. Non esiste, a mio avviso, rituale o mitologia che non contenga l’eco di un conflitto, non cristallizzi un’ambivalenza.
Nel mio esempio perdita e dolore sono associati al tema della morte – il viaggio dei morti – e più in generale a quello della vita individuale nella sua dimensione di caducità, che si connette con le esperienze più arcaiche, come la vita intrauterina, la nascita, la separazione dalla madre, eccetera.
L’insieme condensato di questo materiale fantasmatico fa da cassa di risonanza per le elaborazioni secondarie, e mantiene viva l’attenzione verso certi eventi reali. Nei prodotti che li rappresentano, pittografie, miti, o cosmografie, risuonano anche gli echi di quel lavoro psichico che li ha alimentati e giungono fino a noi con tutta la loro potenza evocativa
© Manuela Tartari
Note:
1 S. Freud, (1900) “Die Traumdeutung”, tr. It. ”L’interpretazione dei sogni“, Opere, vol. n° III, Boringhieri, Torino, 1977
2 J. Laplance, J.-B. Pontalis, « Enciclopedia della psicoanalisi », vol. I, Laterza. Bari, 1974, pag. 90.
3 G. Obeyesekere, The work of culture, The Universiti of Chicago Press, 1990.
4 M. Klien, (1930), “L’importanza della formazione di simboli nello sviluppo dell’Io”, in: Scritti, Boringhieri, Torino, 1978.
5 Vladimir Marinov, “L’art des cavernes et l’<art> du rêve », in : Psa. Univ., 1986, 11, 43.
6 Il fantasma della scena primaria, il quale a sua volta condensa – nella raffigurazione di un coito – la figura maschile e quella femminile, nonché l’atto sessuale con quello aggressivo del ferire e mutilare.
Psicoterapeuta, antropologa formatasi presso ‘Ecole del Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, membro didatta dell’Istituto italiano di Micropsicoanalisi. Ha collaborato per anni alle ricerche e alla didattica delle cattedre di psicologia sociale e psicologia dinamica, quando Nicola Peluffo insegnava alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino. Da più di vent’anni ha ricoperto incarichi di consulenza e collaborazione presso alcune ASL piemontesi per la psicoterapia infantile e il lavoro in ambito evolutivo. Oggi è consulente tecnico del Giudice presso i Tribunali di Torino. Tra le diverse pubblicazioni si ricorda: “Metamorfosi del corpo”, in: La terra e il fuoco, a cura della stessa autrice, ed. Meltemi, Roma 1996; “Dall’oggetto inconscio all’oggetto transizionale”, in Quaderni di Psicoterapia Infantile, diretti da C. Brutti, Borla, Roma 1997; “Antropologia e metapsicologia. Un confronto freudiano tra efficacia simbolica e elaborazione primaria”, in Etnosistemi, n° 7, anno VII, 2000; “L’immagine del corpo in adolescenza”, in Bollettino dell’Istituto italiano di Micropsicoanalisi, n° 36, 2006: “Controtransfetr e stati deliranti”, in Tabù, delirio e alucinazione, ed. Alpes. Roma, 2010; “La creatività tra psicoanalisi e antropologia”, in Creatività e clinica, ed. Alpes. Roma, 2013. La dott.ssa Tartari si è spenta in Torino nel 2020.