Cimitero e riti di seppellimento come tramite per l’elaborazione del lutto

da | Mar 25, 1992 | Articoli pregressi, Quirino Zangrilli

Il presente lavoro costituiva Relazione ufficiale nella sessione “I Vissuti” del Congresso “LE PERIFERIE DELLA MEMORIA – Rappresentazioni Vissuti Trasformazioni della morte urbana” tenutosi a Torino il 19 – 21 Marzo 1992.

Una delle ragioni che rendono particolarmente difficile l’elaborazione del lutto risiede nel fatto che il congiunto scomparso, in quanto immagine agente nello psichismo dei sopravvissuti, continua ad esistere, per lo meno fin tanto che la coordinazione energetica di quegli elementi formali che danno significato a quell’insieme rappresentazionale-affettivo cui corrispondeva quella data entità storica può essere conservata.
Si pensi solo alla difficoltà che abbiamo di rappresentarci un mondo in cui la persona scomparsa non sia più presente: per mesi, a volte per anni, percepiamo la sua fisionomia tra la folla o ci proponiamo, magari nei primi confusi momenti che seguono il risveglio mattutino, di telefonargli per condividere quella data emozione.
Nell’espressione “lavoro del lutto”, introdotta da Freud nel lontano 1915 in “Lutto e Melanconia” (Sigmund Freud, Lutto e melanconia, OSF Volume 8°, Boringhieri, 1980) è insita la nozione di processo energetico di trasformazione che è strettamente connessa a quella di elaborazione psichica che indica il lavoro compiuto dalla mente per dominare il surplus energetico derivante dall’evento traumatico attraverso lo stabilirsi di operazioni di connessione e vincolamento. L’esperienza del lutto è ovviamente una esperienza di perdita: nella nostra esistenza vi sono alcuni oggetti su cui abbiamo fatto degli investimenti libidici.
Improvvisamente qualcuno viene a dirci che abbiamo perso tutto il patrimonio che avevamo depositato su quell’azione! Ci sentiamo distrutti e amputati: un grave furto energetico è stato perpetrato ai nostri danni. Nessuno accetta mai volentieri una perdita e usualmente si ricorre al rigetto della realtà; è proprio l’esame di realtà che ci dice che quell’oggetto non esiste più e che quindi la libido investita dovrà essere sottratta dall’oggetto in questione. Un lavoro doloroso e impegnativo che le persone tentano di rimandare o evitare intrattenendo rapporti sempre più stretti con l’immagine interna dell’oggetto perduto.
Per la micropsicoanalisi, è importante considerarlo, la costruzione del mondo psichico individuale non avviene per introiezione (frammenti della realtà esterna vengono introdotti psichicamente dal mondo esterno all’interno a costituire il mondo psichico ontogenetico) bensì per proiezione (sono gli oggetti reperibili nello scenario ontogenetico che forniscono il supporto percettivo per il vincolamento e il dinamismo delle immagini che costituiscono il corredo genealogico degli individui).
Personalmente credo che oltre al dolore costituito dal furto libidico molta della sofferenza che segue l’evento luttuoso derivi proprio da un movimento brusco verso il Primario e dall’avvicinamento al vuoto: Le immagini sono di per sé già un tentativo di vincolamento-organizzazione dell’energia psicomateriale e la costituzione di imago (intese come strutturazione in complessi, cioè in nuclei autonomi inconsci dei personaggi chiave dell’infanzia) è un ulteriore operazione di vincolamento che allontana dalla destrutturazione energetica propria del vuoto. I corpi-supporto con i quali ci rapportiamo sono un’ulteriore barriera protettiva che ci consente di allontanare lo spettro della vacuità energetica.
Le persone sono depositarie di un corredo iconico determinato che funge da magnete e da ancoraggio per determinate porzioni del nostro psichismo; maggiore è l’affinità iconica che intercorre tra due soggetti, maggiori saranno le possibilità che si stabiliscano legami energetici stabili. Questo discorso implica il fatto che le persone di cui ci circondiamo concorrono a stabilizzare la nostra forma e che molta della sofferenza provata nell’esperienza del lutto derivi dal brusco rimaneggiamento energetico che subiscono le forme che interagivano con l’elemento scomparso (la sofferenza è sempre in fondo derivante da un brusco squilibrio tensionale: una voce che stona ci urta perché ci immette troppo rapidamente in un’altra gamma di frequenze acustiche, troppo lontane dalle precedenti).
Abbandonare i legami con l’immagine dell’oggetto perduto è doloroso in primo luogo perché fa perdere la forma ad un certo quanto energetico: durante il lavoro del lutto non avviene solo il lavoro di interiorizzazione nell’io dell’immagine dello scomparso, ma è l’intero mondo interno che deve essere ricostruito secondo una forma inedita.
Paradossalmente spesso questo rimodellamento della forma può permettere alla persona l’attualizzazione di potenzialità di tentativo, pur presenti nel suo corredo ereditario di immagini, che nella coordinazione precedente non avevano la possibilità di attivarsi. E’ un fenomeno che può essere paragonato alla isomeria in campo chimico, fenomeno molto frequente soprattutto tra i composti organici, per il quale due o più sostanze aventi la stessa composizione centesimale differiscono solo per la differente distribuzione degli atomi nella molecola. La formula bruta è sempre la stessa, è la configurazione spaziale che cambia; nondimeno questa semplice differenza formale può determinare variazioni sensibili delle proprietà fisiche o chimiche, cioè del comportamento del composto.
A volte, comunque, il dolore che deriva dalla necessità di un riassemblamento totale del proprio mondo interiore, spinge le persone ad un rifiuto del dato di realtà che, conformemente al terreno dell’individuo, può condurle o al diniego psicotico o all’utilizzo massivo di meccanismi di identificazione allo scomparso.
Le presenti considerazioni e l’importanza dei riti dei morti saranno evidenti seguendo alcuni casi tratti dalla mia casistica clinica.
Nel primo caso che vorrei esporvi, un giovane analizzato, arrivò alla mia osservazione affetto da una grave depressione anaclitica secondo Spitz, susseguente alla precoce scomparsa della madre e difesa parzialmente da una posizione psicotica di diniego della perdita: il giovane era, a suo dire perseguitato, dalla presenza, sotto altre spoglie, del fantasma della madre.
In particolare gran parte della sofferenza era vincolata in un lacerante rapporto d’amore, altamente idealizzato e non corrisposto, che il giovane viveva con una giovane donna che gli appariva come la reincarnazione della madre.
Attraverso un lungo lavoro analitico l’analizzato riuscì a prendere coscienza della scomparsa della madre, ad ottenere lo svincolamento dalla immagine persecutoria della madre-Zombie, ad elaborarne il lutto e a poter finalmente stabilire una relazione soddisfacente sul piano sessuo-affettivo con una giovane donna.
Nell’affrontare questo caso si rese necessaria, come spesso avviene in micropsicoanalisi, una visita dei luoghi in cui si era svolta l’infanzia del giovane, che implicò anche un sopralluogo nel cimitero ove era sepolta la madre dell’analizzato. Durante l’esercizio di questa metodica micropsicoanalitica, l’analista rispetta criteri di grande prudenza e si attiene alla massima neutralità. Ci si limita ad ascoltare i racconti e le reminiscenze del paziente. L’analizzato durante una lunga passeggiata per le strade del paese d’origine e per la campagna circostante parlò a più riprese dello scoppio irrefrenabile di pianto che ebbe nell’infanzia di fronte al televisore quando la nazionale olandese di calcio perse l’incontro contro la Germania. Era un ricordo di copertura, una situazione di spostamento-vincolamento di una situazione di perdita irreparabile e di rottura del guscio narcisistico e dell’onnipotenza infantile.
La visita del luogo ove era sepolta la salma della madre, anche in questo caso ebbe la funzione di potente induttore associativo che innescò un profondo processo di elaborazione psichica. Pochi giorni dopo il sopralluogo l’analizzato fece il seguente sogno:
Ero alla finestra della nostra casa di Y (il nome del paese di origine) e c’era mio padre. Io ed un altra persona dovevamo buttarci da quella finestra ma era molto molto alto. C’era il vuoto minaccioso sotto di noi. Avevamo delle cose in spalla ed io dicevo:”Ma ci vuole il paracadute!” E mio padre:”Buttati, non temere, vai tranquillo!” Comunque sia mi getto ed io e l’altro scendiamo in picchiata e mentre scendevo pensavo: “Ma sono senza paracadute!” Andiamo a sbattere contro un asse di legno…avevamo sbattuto su questa cassa (LAPSUS: cassa per cosa) che attutisce il colpo. Poi c’era una buca e noi ci troviamo in terra salvi, vivi. Ed io penso:”Ecco perché non c’era bisogno del paracadute, perché c’era questa tavola che attutisce il colpo. Poi l’atmosfera del sogno cambia e c’è una ragazza a gambe aperte, come se aspettasse qualcuno che la penetrasse”.
Ecco alcune delle associazioni prodotte: ”Se non fossi caduto su quella tavola sarei morto! Ed invece ero vivo, dentro un buco. Io sono entrato nella cassa ma non c’era nessuno dentro. Ho pensato a lei, dottore, che mi ha lanciato per dirmi “Vai, vedi che non c’è niente lì dentro? Non c’è vita”. E nella vita sono io…io che vivo dopo questo volo, mia madre non c’è non ha più vita, ma io vivo, vivo…non per rientrare in una cassa, ma devo vivere, perché la vita è quella ragazza che mi aspetta a gambe aperte. Io voglio lanciarmi, ma voglio la massima sicurezza: un paracadute. Dalla finestra o si vola o si muore. Ecco ora ho visto chiaramente mia madre da dietro una finestra, dentro una cassa. Ed è scomparsa dalla mia vita. Quella è stata l’ultima volta in cui l’ho vista, ma credevo che dormisse! Mamma dormi, vero? Svegliati! Non dormiva…non l’avrei svegliata. Era anche lei sul letto come mio nonno e li hanno portati nello stesso posto. Lei mi baciava, mi scaldava, era il mio amore:”Come può essere diventata fredda? Ma è così! (da un violento pugno contro il muro adiacente il lettino) Era fredda. Dalla finestra, in ogni caso, uno va via, scompare, non torna, e voglio andarmene anch’io. Volevo andare da lei: questo viaggio simbolico non mi fa paura: perché porta in un posto dove è andata a finire lei. Alla fine rimango solo io vivo e dentro la cassa non c’è niente. Ho aperto questa maledetta cassa e non ci ho trovato niente. Il paracadute è mia madre”.
Credo che, a prescindere da tutte le considerazioni che possono essere fatte sulla sovradeterminazione del materiale onirico, il contenuto manifesto di questo sogno sia quasi trasparente: c’è un movimento, che si percepisce come pericoloso ma ineluttabile, che potremmo definire “salto nel vuoto” ed una struttura difensiva che nel contenuto manifesto del sogno è inizialmente rappresentato da un’asse di legno, ma che il lapsus relativo riconduce alla sfaccettatura della fase analitica: la cassa funeraria. Quest’ultima salva il protagonista da questo avvicinamento minaccioso al vuoto ma, oltre ad una funzione protettiva, detiene dei connotati persecutori fonte di notevole sofferenza.
In particolare, il topos funerario funge da corpo supporto a cui vincolare l’immagine mortifera della madre scomparsa e permette l’inizio di un processo di enucleazione della immagine di sé dalla sinapsi materno-fetale a cui l’analizzato era fissato. Questa dinamica di attualizzazione dello psichismo gli permetterà di sottrarsi al gorgo succhiante della coazione a ripetere. ”La cassa – conclude l’analizzato – mi ha salvato la vita: non c’è mia madre, né fuori né dentro, ci sono solo io. Quella cassa rappresenta la fine di mia madre e l’inizio mio! Non serve più il paracadute: si può vivere anche senza”.
Con l’esposizione del secondo caso clinico vorrei ora parlare del possibile utilizzo massivo dei meccanismi di identificazione allo scomparso, evenienza normale nei primi mesi che seguono l’evento luttuoso, ma che, se protratto e reiterato può condurre ad una elaborazione patologica del lutto.
Lo possiamo riscontrare nel caso di una giovane donna che chiameremo la Signora del Buio giacché somiglia, nell’aspetto e nei modi, ad una creatura della notte. Veste sistematicamente di nero, cura un abbigliamento estroso ma che sembra uscito da un’altra epoca; chiunque noterebbe un certo compiacimento nel suo presentarsi in codesta veste dark. Per me che la osservo in veste professionale non resta che considerarlo un atteggiamento controfobico, assunto per esorcizzare il potente richiamo inconscio esercitato dal polo di morte della pulsione di morte-vita.
La signora giunge alla mia osservazione in gravi condizioni: una protratta sindrome anoressica l’ha ridotta in uno stato pre-cachettico. La Signora del Buio aveva perso il padre dopo una lunga e dolorosa malattia ormai da quindici anni. Tutto in lei faceva pensare che quella perdita non era stata minimamente elaborata:addirittura la signora ignorava il luogo preciso ove fosse seppellito suo padre poiché con abili meccanismi di razionalizzazione si era sempre rifiutata di andare al cimitero.
Alla scomparsa del genitore aveva interrotto gli studi ed aveva preso il posto di questi nella sua azienda. Ma seguiamo compiutamente, attraverso le efficaci parole dell’analizzata, la seduta in cui avviene la presa di coscienza dei processi inconsci di identificazione allo scomparso e si apre, a distanza di quindici anni, il processo di elaborazione del lutto.
Tale seduta era stata preceduta da un materiale in cui la Signora del Buio, a varie riprese, e con diverse formulazioni, aveva esternato un penoso disagio di non avere un posto proprio, una collocazione che le desse tranquillità. “Sono distrutta, ridotta a pezzettini perché ho sempre controllato tutto, non mi sono mai permessa di soffrire e piangere. Avevo sempre detto a papà: – Non farò mai il lavoro che fai tu! – e invece…del resto dove posso andare? Una volta mio padre fu inviato in una sede dove il precedente dirigente era morto suicida. Mio padre usava le stesse sedie, sedeva alla stessa scrivania, ma come poteva? Quello lì era morto e lui era al posto suo. Era al posto di uno che era morto. Oddio! ma anch’io sono al posto di uno che è morto! (è molto frequente, soprattutto in persone con una struttura ossessiva, questa modalità, di tipo proiettivo, di avvicinamento alla verità) faccio le stesse cose che faceva lui, ma non può succedermi quello che è successo a lui! Ho paura di morire, soprattutto in quel modo. Ho paura, adesso. Io sono un’altra persona: non sono lui! E se poi mi succedono le stesse cose? Faccio ogni giorno quello che faceva lui, è una routine terribile. Parlo delle stesso cose di cui parlava lui. Ma io non sono lui! Non sono lui, non sono morta. E’ per quello che sto sempre in giro dai medici? Perché ho paura di star male come lui? Fa freddo…è come fossi diventata lui! (effettivamente l’analizzata si trova in una situazione di grande pericolo: una delle possibili complicanze di un processo di elaborazione patologica del lutto è rappresentato dalla possibilità che il soggetto, riversando sul compartimento somatico la conflittualità interna, proceda alla ricostruzione dei sintomi organici o psichici presentati dallo scomparso: da una parte un tentativo di eternamento dell’immagine attraverso gli attributi formali sui quali si concentrava maggiormente l’affetto e l’ambivalenza, dall’altra un tentativo di annullare, con movimento retroattivo, il trauma, rieditandolo sulla propria pelle)
Certe volte dico le cose che avrebbe detto lui, ragiono come lui, faccio tutte le cose che prima mi davano fastidio vedere in lui. Mi sento presa in trappola. Non posso pensare che mi devono succedere le stesse cose! Adesso mi fa veramente male tutto. Sono quindici anni che faccio finta di essere io ma sono quattordici anni che sto al posto di un morto. E stavo diventando lui! Anzi, ero già diventata lui! Avevo preso il suo posto. Avevo il posto di un morto: è come dovessi morire da un momento all’altro. E’ per questo che ho sempre la sensazione che mi debba accadere qualcosa di orribile da un momento all’altro? E’ come avere il destino già segnato; no, non può succedermi questo! (la paziente esprime questi concetti abreagendo un enorme affetto, piange, si inarca, si agita. Il concetto-chiave viene più volte reiterato, arricchito, sviscerato, finché progressivamente, l’angoscia diminuisce e la tensione si placa). E’ stata una cosa pazzesca: come un flash, come mi fosse scoppiato qualcosa nella testa…una rivelazione violenta. Sono stata anni a vivere la vita di un altro, per far contenti tutti. Mia madre in me vede mio padre, e comunque io avevo accettato quel ruolo. Ecco perché non sono mai riuscita ad andare al cimitero…ma io non sono morta e non voglio morire…devo ritrovare me stessa. Vorrei essere a casa mia ora, mi sento improvvisamente cosç tranquilla, come mai lo sono stata, vorrei essere a casa, trovare il mio posto, che era quello e non un altro. Ecco, ora credo di poter tranquillamente andare a far visita a mio padre.”
Vorrei solo aggiungere che la difficoltà di trovare il proprio posto era amplificata anche dall’impossibilità di avere un posto in cui collocare l’immagine del padre scomparso con il concomitante rifiuto di partecipare al rituale di inumazione della salma.
I riti funerari hanno la funzione di sugellare con il crisma dell’ufficialità (l’io società) il topos che funge da supporto percettivo di vincolamento dell’immagine del defunto fintantoché i legami libidici con essa non siano allentati e sciolti.